Bounty metafora della modernità

L'isola del paradisoFra i grandi miti fondanti la moderna società occidentale, all’ammutinamento del Bounty spetta un posto di primo rango, non solo perché si è rivelato uno straordinario soggetto cinematografico per gli sceneggiatori di Hollywood o perché ad esso hanno attinto ispirazione letterati come Byron, Coleridge o lo stesso Verne, ma in quanto costituisce una straordinaria metafora, un esemplare paradigma di quello che Augusto Del Noce avrebbe defnito il suicidio della rivoluzione. Un po’ perché ebbe luogo il 28 aprile 1789, un mese e mezzo prima della presa della Bastiglia, un po’ perché i marinai insubordinati agirono sotto influenza di ufficiali formatisi nel clima culturale illuminista, l’ammutinamento del trasporto armato della regia marina britannica Bounty, di ritorno da Haiti, dove era stato inviato in missione botanica, costituisce, nelle sue premesse, un riflesso di quella crisi della coscienza europea cominciata con la transizione dal classicismo razionalista del Seicento al gusto dell’esotico e all’idealizzazione del buon selvaggio e dello stato di natura. Ma, nelle sue conclusioni, rappresenta un’anticipazione di tutte le rivoluzioni contemporanee, dalla francese alla sovietica, partite dal postulato dell’innata bontà della natura umana, salvo concludersi con la dimostrazione dell’esatto contrario.

Doveva dunque accadere, prima o poi, che, dopo aver sedotto scrittori influenzati dalla temperie rivoluzionaria l’ammutinamento del Bounty suscitasse l’ispirazione di un narratore di solida formazione cattolica come Eugenio Corti, più apprezzato all’estero che in Italia, come dimostrano le traduzioni in russo, polacco e francese del suo Processo e morte di Stalin e le versioni francesi, spagnole, lituane, rumene, inglesi e giapponesi del suo capolavoro, Il cavallo rosso (Ares), poderoso affresco della storia italiana dalla campagna di Russia agli anni Settanta e implacabile denuncia della barbarie del comunismo sovietico.

Rispettoalle precedenti rivisitazioni dell’epopea del Bounty, L’isola del paradiso – questo il titolo del libro (Ares, Milano, pp. 334, L 32.000) – si distingue per tre scelte di fondo. La prima – quella forse di minore importanza – è di carattere formale. Più che un romanzo, L’isola del paradiso è un “racconto per immagini”, come lo definisce 1’autore, diviso come una sceneggiatura teatrale o cinematografica, in episodi e scene. Un tentativo di adeguarsi alla sensibilità e anche alla ricettività di un pubblico sempre più condizionato (e se si vuole viziato) dai nuovi linguaggi audiovisivi e anche di proporre ai produttori cinematografici o televisivi un’opera pronta “chiavi in mano” per il piccolo o grande schermo. Anche se Giuseppe Romano, nella sua attenta presentazione, mette in dubbio la possibilità di una sua immediata ulilizzazione come sceneggiatura, si tratta di un tentativo riuscito, anche sotto il profilo letterario. La formula adottata costringe infatti l’autore ad un’efficace stringatezza espressiva, così distante da quell’architettura manzoniana del periodo, da quell’ariosa complessità descrittiva che custituiscono il fascino di un romanzo come Il cavallo rosso, ma anche uno dei limiti della sua presa presso il pubblico giovanile.

L’altra scelta è di taglio cronologico, ma nasconde un intento di carattere ideologico. A differenza della maggior parte di quanti si sono cimentati con la tragedia del Bounty, Corti non pone al centro della sua narrazione la genesi dell’ammutinamento, ma le sue conseguenze: le vicende degli insorti dopo la ribellione. II suo racconto per immagini si apre con la scena dell’abbandono del comandante, il testardo e crudele Wlliam Bligh, e degli ufficiali e marinai a lui fedeli, su una lancia con cui avrebbero miracolosamente raggiunto le Indie Olandesi. Ma poi descrive quelle che sarebbero state le tappe successive del calvario degli ammutinati: basandosi sugli scartafacci di alcuni di loro, il guardiamarina Young e il marinaio Smith: il ritomo a Tahiti, il conflitto fra coloro che intendono restarvi e quanti invece – al seguito del comandante in seconda Fletcher Christian – decidono di partire, insieme a qualche indigeno, alla volta di un’isola su cui porsi in salvo dalle rapprcsaglie dell’Ammiragliato e realizzare una società perfetta, modellata sullo “stato di natura”. E poi i conflitti fra indigeni e marinai inglesi, per contrasti sulla spartizione delle donne e l’organizzazione del lavoro, la piccola guerra civile che scoppia nell’isola, decimando tahitiani e ammutinati, fino alla deisione degli ultimi superstiti di rifondare moralmente quanto resta della piccola colonia isolana, educando i figli delle indigene e degli insorti secondo i principi della severa morale puritana. Terzo tratto distintivo del racconto di Corti è la scelta di evitare, in una narrazione che pure è ispirata a una precisa chiave di lettura etico-religiosa, ogni sbavatura apologetica, ogni sovrapposizione ideologica dell’autore agli eventi. I fatti – i nudi fatti, più eloquenti di molte orazioni – parlano da soli. La stessa sequenza delle immagini che Corti propone fa emergere nella sua dinamica perversa il suicidio della rivoluzione, l’inesorabile trasformazione in un incubo del sogno rousseauviano, la degenerazione della democrazia assembleare in tirannide demagogica. L’isola del paradiso non tarda a rivelarsi un vero e proprio inferno, finché non il comandante in seconda Christian, formatosi alla filosofia dei Lumi, né il guardiamarina Young, ma 1’incolto marinaio Alexander Smith scopre il motivo per cui è fallita l’utopia rivoluzionaria; e la trova, da bravo figlio dell’Inghilterra protestante, dalla lettura di un brano della Bibbia, quel passo del Vangelo secondo Matteo in cui si legge che “solo dal cuore dell’uomo vengono i malvagi propositi, gli omicidi, gli adulteri, le fornicazioni, i furti, le menzogne, le bestemmie”.

Per cui – commenta il marinaio – “se il male ci segue dovunque andiamo, il paradiso terrestre noi non potevamo costruirlo in nessun modo: e avremmo dovuto saperlo!”.

La sconfilta dell’ingenua ingegneria sociale del pur rispettabile Christian, il fallimento del suo progetto di realizzare una società perfetta in condizioni ideali, in un’isola dove la natura porge spontaneamente i suoi frutti, lontano dai condizionamenti della corrotta Europa, è così dapprima verificata empiricamente, attraverso la degenerazione della convivenza all’interno dell’isola del paradiso, e solo in un secondo momento dimostrata teologicamente, alla luce di quel dogma del peccato originale che accomuna il protestante Smith e il cattolico Corti. E il microcosmo degli ammutinati si rivela una sorta di laboratorio ideologico dell’Europa rivoluzionaria, che prefigura, nel “ritorno all’ordine” dei superstiti, il nuovo dima etico-religioso della restaurazione. Una conclusione che scaturisce dalla rigorosa sequenza delle immagini in una narrazione che si segue tutta di un fiato, ricca com’è di notazioni ora sottilmente ironiche (gli insorti che vogliono ridurre in schiavitù gli indigeni, usando su di loro la stessa frusta detestata come una barbarie quando a infliggerla era il crudele comandante Bligh), ora lucidamente realistiche sulla natura femminile (indimenticabile la figura della tahitiana Tufaiti, che, lasciando il marito polinesiano per il rozzo marinaio inglese Williams, dà origine, novella Elena, al conflitto che decimerà indigeni e ribelli).

Con la feconda longevità del genio, l’ormai ottantenne Eugenio Corti, oltre a consegnarci un racconto di rara efficacia etica ed estetica, ci ha fonito un’ennesima dimostrazione della sua capacità di rinnovarsi, nella forma e nel contenuto, cimentandosi con imprevedibile scioltezza in un genere letterario di frontiera. Resta da sperare solo che, un giomo o l’altro, decida di accettare la sfida sino in fondo, trasformando anche il suo capolavoro, Il cavallo rosso, in un grande racconto per immagini, nella sceneggiatura di un gigantesco colossal sulla storia della penisola. Sempre, naturalmente, che gli odierni monopoli e oligopoli televisivi, fin troppo egemonizzati dalla lobby dei nipotini di Fletcher Christian, abbiano interesse a proporre al grande pubblico la sua versione controcorrente di un cinquantennio di storia italiana.

(Enrico Nistri, 2000)