L’espropriazione della letteratura italiana & altre piacevolezze

Il fumo nel tempioQuesta lunga intervista su argomenti diversi, venne registrata in un unico pomeriggio in casa di Eugenio Corti da Camillo Ravasi per I quaderni della Brianza; è stata poi rivista da Corti.

[…]
DOMANDA – Posso chiederle di dirmi, molto in breve, come vede lei la situazione della cultura cattolica?
RISPOSTA – Molto ma molto in breve: sento ripetere che oggi le pubblicazioni cattoliche costituiscono in Italia – quanto a tiratura – appena il quindici per cento del totale. Vedo inoltre che i cristiani sono ora divisi tra loro (questo mi sembra l’handicap più grave). Per quanto riguarda la letteratura, non solo cattolica, è successo di peggio: in Italia è intervenuta una vera e propria espropriazione della letteratura, ad opera di personaggi della cultura dominante laicista-marxista.

D. – Espropriazione della letteratura? Vuole spiegarsi meglio?
R. – Ricorda, subito dopo la guerra, gli anni delle grandi lotte per il nuovo assetto da dare alla società italiana? I marxisti (i Comunisti, con l’appoggio acritico dei socialisti) hanno tentato di impadronirsi dei mezzi della ‘produzione sociale’: cioè delle fabbriche, delle strutture, della terra, eccetera, in breve di tutti i mezzi della produzione. Non ci sono riusciti, perché nella lotta — mantenutasi grazie a Dio in termini civili – hanno prevalso i loro avversari: intendo i cristiani (gli unici allora in grado di tenere davvero testa ai marxisti nelle prove elettorali) con l’aiuto degli allora elettoralmente molto minoritari ‘laici’, che in quegli anni erano schierati al pari dei cristiani contro i marxisti. Nella cultura però le cose sono andate meno bene che negli altri campi, in quanto i ‘laici’ subivano troppo il fascino della cultura marxista (la quale in fin dei conti procede dalla loro stessa filosofia illuminista: semplificando potremmo addirittura dire che quella marxista è la cultura laica al suo stadio più avanzato).

La cultura marxista ha finito così con l’acquistare molto presto un prestigio sproporzionato, in Italia più ancora che nel resto dell’Occidente. Più avanti, in un settore molto importante quale è quello della letteratura, da noi è intervenuta un’espropriazione vera e propria. Attraverso passi successivi, tra cui – a mio giudizio – due particolarmente incisivi, e cioè: primo, negli anni Cinquanta, l’avvio ad opera dei marxisti dell’attuazione del piano di Gramsci, che mirava al condizionamento – mediante intellettuali ‘organici’, cioè in sostanza integrati al partito comunista – dei principali istituti di elaborazione della cultura, e di diffusione della cultura e dell’informazione. (In pratica l’avvio del condizionamento di università, case editrici e mass media in genere). Secondo passo: nella prima metà degli anni Sessanta, il passaggio della cosiddetta ‘Nuova avanguardia’ (che comprendeva i più brillanti tra gli autori ‘laici’ e borghesi: fino allora, come si è detto, in lotta contro i marxisti) su posizioni ancora più a sinistra di quelle marxiste. Venutasi a creare una tale situazione, sia i proprietari che i dirigenti delle maggiori case editrici italiane di libri e di giornali (in gran parte ‘laici’), invece di lottare per mantenere la letteratura libera, hanno preferito adeguarsi. Si sono cioè a loro volta lasciati ‘integrare’ nell’organizzazione gramsciana, dopo che essa aveva ricevuto di fatto un così importante rinforzo dai laicisti della ‘Nuova avanguardia’. Si è venuta in tal modo a creare – ad opera, in fin dei conti, di relativamente poche persone (i direttori e i proprietari delle maggiori case editrici e dei grandi giornali, nonché una piccola confraternita di critici autorevoli. con la solita collaborazione passiva dei ‘cattocomunisti’, da sempre determinanti alla TV) – un’organizzazione straordinariamente potente, che si frappone ormai in modo sistematico tra quelli che dovrebbero essere i naturali attori in campo letterario: cioè da un parte gli autori delle opere (alcune migliaia), e dall’altra i lettori (tutta la società: molti milioni): insomma tra i produttori e i fruitori delle opere. Forse mi sto dilungando?

D. – No, vada avanti, la prego; non succede spesso di sentire un discorso così controcorrente.
R. – Gli autori marxisti e laicisti, e i molti finti tali, sono da parecchi anni in qua regolarmente portati alle stelle, e se le loro opere appena appena si prestano all’industria culturale, hanno tirature da capogiro, salvo poi essere dimenticate nel volgere di qualche anno, a motivo del loro scarso o nullo valore reale. Gli altri autori, i non disposti a voltare gabbana, soprattutto i migliori e più validi, si trovano invece inesorabilmente esclusi dal palcoscenico letterario. Esclusi cioè dagli articoli dei maggiori giornali e delle riviste più importanti, dai testi di storia della letteratura, dai premi letterari di rilievo (tutti senza eccezione, questi ultimi, in mano ai soliti, eterni critici ammanicati tra loro e con le maggiori case editrici: ai quali poi quasi tutti gli altri critici si ispirano) per essere à la page, e si ispirano anche i giudici, più o meno competenti, della miriade di premi letterari minori, compresi quelli cristiani e in buona fede). Com’era inevitabile, da quando la produzione letteraria non è più libera, cioè da un paio di decenni, essa è scaduta abissalmente. Allo stesso modo che nella Russia comunista, anche in Italia non viene più alla ribalta una sola opera veramente grande. Ma proprio come non importava alla nomenklatura di Zhdanov in Russia, così questo non importa affatto agli attuali usurpatori della nostra repubblica delle lettere. Voglio dire: che le grandi opere non giungano al pubblico, e se possibile addirittura non vengano scritte, a loro va benissimo. Anzi di alcuni grandi autori, ch’erano stati in un primo tempo anche da loro ampiamente riconosciuti, hanno iniziata una sorta di barbarica demolizione. Caso tipico quello di Solgenitsin: il terzo volume del suo Arcipelago gulag, attesissimo dai lettori, per anni e anni non è stato da Mondadori – che ne aveva acquistato i diritti – messo a disposizione del pubblico italiano: fino a quando l’attesa non si è estenuata: allora venne pubblicato. Le successive opere di Solgenitsin – tranne qualcuna minore – semplicemente non sono state tradotte in italiano, e adesso i critici più zhdanoviani si danno tetragoni da fare per demolire quest’autore, che probabilmente è il maggiore del nostro secolo.

D. – Mi è capitato di leggere più di un attacco a Solgenitsin.
R. – Le potrei citare diversi esempi analoghi. Senza allontanarci troppo da Solgenitsin, c’è quello della rivista Kontinent di notevole prestigio internazionale, pubblicata a Parigi da alcuni dei maggiori autori russi del dissenso, credenti e non credenti. Per anni l’ha tradotta e diffusa in Italia Garzanti (era il mio editore una volta – che malinconia!) finché gli autori russi si sono accorti che nella versione italiana venivano accuratamente espunti dai loro testi tutti i riferimenti cristiani: che cioè ogni discorso cristiano veniva censurato, tagliato via. Allora hanno tolta la rivista a Garzanti: il risultato è che oggi i nostri lettori non dispongono di questa importante voce (è uno dei tanti motivi per cui in Italia siamo così incredibilmente ignoranti della realtà dell’Est). Non posso soffermarmi a lungo; mi limiterò ad altri due casi ancor più clamorosi (e non meno vergognosi). Certo lei ricorderà bene quello de Il gattopardo, ossia di un’opera di obiettivo valore letterario, che è stata a lungo respinta dai principali editori italiani, e tra l’altro da un intenditore che deve averne capita tutta l’importanza, Elio Vittorini: per anni l’opera non è stata accettata, i funzionari delle case editrici hanno fatto quanto potevano per soffocarla, cosicché l’autore, Tomasi di Lampedusa, è morto senza vederla pubblicata. Poi, una volta uscita, il suo valore è stato immediatamente avvertito dalla gente comune, e la tiratura ha superato il milione di copie. Ricorderà anche il caso delle Centomila gavette di ghiaccio di Bedeschi, un gran bel libro anche dal punto di vista letterario (nonostante i misconoscimenti della critica), che ha dovuto aspettare più di dieci anni prima di trovare un editore non ‘organico’ (Mursia) che lo pubblicasse: una volta pubblicato ha raggiunto la tiratura di due milioni e mezzo di copie (la massima in questo secolo, credo), a tal punto i lettori l’hanno gradito. Questi due casi sintomatici dimostrano quanto gli attuali usurpatori della nostra ‘repubblica delle lettere’ siano (appunto al pari degli zhdanoviani) costituzionalmente nocivi alla cultura italiana. Ma basta. Adesso stanno addirittura cercando di avviare la demolizione del Manzoni, cioè la demolizione anche della nostra grandezza passata: lei l’avrà notato, no?

D. – Certo ho notato gli attacchi al Manzoni. Però alcuni dei proprietari di quegli organi di stampa e mass media di cui lei parlava prima, non sono degli importanti industriali, tra i maggiori italiani? Gente che a suo tempo ha difeso con molto impegno, mi sembra, l’industria italiana dal pericolo dell’espropriazione marxista.
R. – Proprio così. Gli Agnelli, per esempio, azionisti in importanti società editrici, e proprietari tra l’altro del maggiore quotidiano torinese. Beh, questo quotidiano, nelle sue rubriche e pagine letterarie – molto seguite e consultate dagli ‘addetti al lavori’ – è tra i più rigidi nell’emarginazione degli autori validi – se cristiani – dalla ‘repubblica delle lettere’. In tal modo gli Agnelli, che non soltanto a suo tempo, ma anche adesso si danno con efficacia da fare per conservare libera l’industria italiana, reggono in pari tempo il sacco agli espropriatori della letteratura. C’è da chiedersi se si tratti di un do ut des.. Ma può anche darsi che non se ne accorgano nemmeno: può darsi che ”in tutt’altre faccende affaccendati” alle cose della letteratura gli Agnelli siano “morti e sotterrati”. In ogni caso la realtà è questa. Le faccio il caso di un altro quotidiano, Il giornale di Montanelli, che per tanti anni è stato, io credo, la testata di punta nella lotta per la libertà di stampa nel nostro paese: beh, quello è un giornale libero in tutto, tranne che nelle pagine letterarie,

D. – Perché dice questo?
R. – Perché seguo abbastanza le sue pagine culturali, in quanto un po’ meno asservite di quelle degli altri giornali. Si avverte bene che i loro redattori – non coraggiosi quanto il Direttore – hanno una gran paura di essere professionalmente gambizzati dai sicari dell’onnipotente mafia letteraria rossa: per cui fanno un discorso libero soltanto in parte.

D. – Quanto lei dice mi sorprende.
R. – Se può interessarla, sono passato, al riguardo, attraverso un’esperienza personale. Egidio Sterpa, che fa parte del gruppo direttivo del giornale, si è interessato l’anno scorso al mio ultimo romanzo Il cavallo rosso: ne ha scritto due volte, le faccio vedere.

(A questo punto Corti estrae dei fogli da un contenitore:) Ecco qui. Nel suo primo pezzo Sterpa scrive: “Forse c’è una spiegazione del silenzio che ha circondato, finora questo romanzo: la sua ispirazione cristiana e diciamo pure la sua netta posizione controcorrente rispetto alle mode culturali”. Sterpa è un ‘laico’ – caspita è il vicesegretario del partito liberale! – ma è anche un uomo libero: per questo, come lei vede, dice quello che pensa: corre il rischio di crearsi inimicizie, ciononostante parla.

D. – Dunque esistono anche del laici liberi e non faziosi.
R. – Eh. lo credo bene! Staremmo freschi, se no. Ma quelli di loro che fanno professione di letteratura, se sono davvero liberi, non hanno diritto di cittadinanza nella ‘repubblica delle lettere’. Del resto un uomo libero tra gli “organici” della struttura gramsciana, sarebbe una contraddizione in termini, non le pare? Ma andiamo avanti, ecco cosa dice Sterpa nel suo secondo articolo: “Come ho già scritto nelle pagine letterarie de Il giornale, Il Cavallo rosso meriterebbe maggiore attenzione da parte dei critici di professione… È un vero peccato che nell’olimpo delle lettere si siano accorti in pochi di questo bel libro, a cui dovrebbe andare il rispetto e almeno l’onore delle armi della cultura laica, visto che fin qui neppure la cultura cattolica ha avuto il coraggio di valorizzarlo quanto merita”. Riassumo: Il giornale ha pubblicato i due pezzi di Sterpa, e questo non è poco, d’accordo. Poi però non c’è stato uno solo dei suoi critici di professione che, accogliendo la sollecitazione, abbia osato esporsi con una vera e propria analisi letteraria del romanzo. Concludiamo: lei mi chiedeva all’inizio qual è la situazione della cultura cattolica: nel contesto italiano gli autori cristiani non disposti a fare i reggicoda, a collaborare in subordine coi laicisti, oggi non possono praticamente farsi conoscere. (Quelli che collaborano invece vengono premiati e amiche superpremiati, addirittura con la carica di senatore a vita.)

D. – Però il suo Cavallo rosso, uscito nell’83, è già arrivato alla sesta edizione, nonché alla terza edizione del volume ridotto per le scuole: diciamo in totale a forse cinquantamila copie. Si tratta dunque di un best seller, malgrado tutto.
R. – L’espressione best seller non mi piace. Comunque sì, a Dio piacendo, siamo arrivati a una discreta diffusione; che anzi dovrebbe continuare (questi almeno sono i sintomi) grazie al favore che il libro seguita a incontrare tra i lettori, i quali se lo segnalano a vicenda Con impegno. E per questo che seguita a diffondersi.

D. – La tiratura sarebbe stata diversa se fosse stato pubblicato da un grande editore, e la ‘repubblica delle lettere’ lo avesse accettato, diciamo lo avesse ‘omologato’?
R. – Io non voglio la loro omologazione, ma la tiratura sarebbe stata enormemente diversa.

D. – In che proporzione? Può darmene l’idea?
R. – Bisognerebbe moltiplicare la tiratura decine di volte. L’idea lei la può avere da quanto scrive Primo Levi nel suo ultimo libro I sommersi e i salvati: dice che della sua prima e principale opera, Se questo è un uomo, uscita con tiratura di duemilacinquecento copie presso un piccolo editore, dopo diversi anni ne rimanevano invendute seicento; adottato più tardi dall’editore Einaudi, e sostenuto da un grande battage pubblicitario, il libro si è di colpo diffuso moltissimo, è stato sceneggiato anche per la radio e per il teatro, tradotto in molte lingue, eccetera. Ad ogni modo io non sono qui a piagnucolare: sono grato, infinitamente grato, al Signore Iddio che mi ha consentito di scrivere un libro come Il Cavallo rosso: questo, di averlo potuto scrivere, di non essere stato bestialmente impedito e magari imprigionato o ucciso, come tanti autori russi e dell’Europa orientale, è per me l’essenziale; ed è una grazia immensa nel nostro tempo. Sì, ogni altra cosa viene dopo. Sono inoltre grato al mio editore e amico Cesare Cavalleri di averlo pubblicato, e di averne gagliardamente sostenuta la diffusione negli ambienti cattolici: intendo in quelli non miseramente succubi del marxismo e del laicismo. Per il resto l’espropriazione della letteratura italiana non potrà durare in eterno, non le sembra?

D. – E’ per una tale situazione che lei si è dedicato con tanto impegno allo studio del fenomeno comunista?
R. – No. Quell’impegno data da molto, molto prima. Il comunismo è obiettivamente, il maggior pericolo che la civiltà abbia corso nel nostro secolo. L’altra ideologia ugualmente carica d’errori che, sempre nel nostro tempo, ha tentato il predominio mondiale, il nazismo, anche se era per certi aspetti più demoniaca e più efficiente, non costituiva un pericolo altrettanto grande. Perché era meno universale, e inoltre con molto minori possibilità di presa. Ad indirizzarmi a studio serio del comunismo (io sono dottore in legge, ma ho studiato molto più comunismo che legge) è stata la mia esperienza diretta della tragica realtà russa. L’esperienza di tale realtà è mancata alla cultura italiana, e lo si sente pesantemente anche oggi. Prima di partire per quel fronte nemmeno io avevo idee chiare in merito (i fascisti erano dei superficiali: avversavano l’URSS, ma non si sforzavano di studiarla davvero, e non ne hanno fatto conoscere che in minima parte la realtà agli italiani, forse non ne sospettavano neppure la tragicità: “Me ne frego” era il loro motto: erano proprio così). Allora ero un ragazzo, però sapevo che in Russia si stava tentando un riscatto dell’uomo non secondo il Vangelo, ma contro Dio. Il giudizio del mondo cattolico era, com’è naturale, fortemente negativo e preoccupato.

D. – C’era tra l’altro la condanna solenne di Pio XII, che definiva il comunismo ateo “intrinsecamente perverso”.
R. – Esatto. Tuttavia non mancava qualche voce favorevole. In particolare quella di Emmanuel Mounier (sì, il discepolo di Maritain) e della sua rivista Esprit, che all’Università Cattolica arrivava. Benché io avessi qualche notizia, sia pure in confuso, di milioni d’esseri umani massacrati, in certi momenti finivo col rimanere perplesso. Perciò, precisamente come quel personaggio del mio romanzo, e col suo stesso sistema, una volta nominato sottotenente io sono riuscito a farmi assegnare a un’unità operante al fronte russo: volevo vedere di persona la ‘società degli uomini nuovi’ comunisti, il mondo nuovo intorno al quale Stalin aveva costruita una cortina di ferro allora quasi invalicabile. Ho visto e sono rimasto terrorizzato per il resto della mia vita. Non credo che uno possa fare oggi lo scrittore – possa cioè rendere conto del mondo nel quale si trova a vivere – se non ha sperimentata la realtà comunista, e anche quella nazista. Per quanto riguarda i comunisti tenga presenti quanto meno le statistiche delle loro vittime inermi, ammazzate a fin di bene: qualcosa di mai visto nella storia: ne parlo dettagliatamente ne L’esperimento comunista.

D. – Sì, conosco quel libro.
R. – I nazisti non hanno avuto il tempo per fare altrettanti morti, anche se erano ancora più disposti a nullificare l’uomo (beninteso sempre con l’intendimento di portarlo più avanti: proprio così: creda a uno che li ha conosciuti). Ecco i due maggiori pericoli a cui s’è trovata di fronte l’umanità nel nostro secolo: soprattutto però a quello comunista, ripeto, per l’universalità della dottrina che lo ispirava. E infatti nella fossa comunista ha finito col cadere circa un terzo degli abitanti del pianeta. Capisce perché mi sono dedicato con tanto impegno allo studio del comunismo?

D. – E quali i risultati pratici?
R. – Ecco: con quali risultati pratici? A volte penso con malinconia che se la voce di noi che abbiamo cercato di far conoscere e di far capire questa tremenda realtà, non fosse stata semisoffocata anche qui in Occidente dal clamore dei mass media promarxisti, il comunismo avrebbe perduto molti anni prima la sua tremenda presa sul mondo contemporaneo: si sarebbero potuti evitare almeno i milioni di miseri morti in Indocina e in Africa (oggi in Etiopia).

D. – Io sono qui per conto della rivista I quaderni della Brianza. Vorrei dunque interrogarla in merito alla nostra terra. C’è ancora in Brianza, secondo lei, una lettura cristiana della Storia?
R. – Direi che c’è soprattutto all’interno delle famiglie. II modo di ragionare della gente, quando è in casa sua, rimane d’impostazione cristiana. Le famiglie cioè sono ancora sostanzialmente ‘paolotte’, anche se questo termine non viene più usato. I ragazzi crescono così tra due opposte sollecitazioni: quella della famiglia, che è cristiana, e quell’altra che ricevono dai mass media – cioè, a livello popolare, soprattutto dalla televisione – che cristiana non è. (Il primo canale RAI vorrebbe esserlo, ma poiché sta in mano ai cattocomunisti, in pratica fa quasi solo un discorso di compromesso. Aveva perfettamente ragione Gramsci quando prevedeva che a scristianizzare il popolo italiano avrebbero provveduto gli stessi cattolici: quelli di loro che, pur senza considerarsi marxisti, avrebbero accettate le obiettive e inconfutabili – secondo lui – analisi marxiste della realtà sociale contemporanea. Sta proprio succedendo così). Nei nostri ragazzi presto, cioè verso i 13-14 anni, prevale la spinta laicista, e sembrano perduti per la vita cristiana. Per fortuna però più tardi (di solito al momento del matrimonio) si ha un ritorno di molti. Finiscono, io credo, col confrontare i personaggi brillanti ma vuoti che vanno per la maggiore nelle varie TV, con la loro madre e il loro padre, e la madre e il padre sono troppo vincenti. Per questo, io credo, c’è un recupero. Non di tutti, non di certe ragazze, per esempio, che le esperienze ‘laiche’ hanno trasformato nella testa e anche nel fisico; parecchi però ritornano. [..]

D. – A parte la Brianza ch’è relativamente immune, come spiega lei la presenza di un comunismo così forte in Italia?
R. – Dov’è, nel mondo intero, che il comunismo ha fatto più presa? Se escludiamo i paesi in cui s’è imposto con la violenza, dobbiamo rispondere in quelli cristiani, e più propriamente cattolici: in Italia, Francia, Spagna, America latina. Nei paesi protestanti invece, dove la gente non va quasi più in chiesa e crede sempre meno nella trascendenza, la presa è stata infinitamente minore. Questo perché nei cattolici c’è l’attesa della redenzione, ed è rimasta una predisposizione in tal senso anche in quelli di loro che non credono più. Ora lei sa che il comunismo si presenta appunto come una redenzione portata dall’uomo all’uomo: come tale è sentito anche a livello popolare.

D. – Torniamo alla Brianza. A che punto vi stanno le cose quanto alla cultura?
R. – Occorre forse prima intendersi sulla forma mentis dei nostri compaesani, i briantei. (Il termine brianzoli mi sembra possa andar bene in dialetto, non in italiano: in italiano, riduttivo e scanzonato com’è, non corrisponde alla figura di questa gente.) I briantei dunque sono dei milanesi: noi siamo milanesi come lo sono gli abitanti della Brianza comasca (e di Como stessa, non solo, ma anche quelli di Varese, Lugano, Sondrio e Pavia). Noi del ramo brianteo però abbiamo due caratteristiche che ci connotano. Anzitutto, siamo ‘paolotti’: il brianteo è paolotto, ossia è un credente di cultura cristiana popolare. Tale è considerato, a livello di popolo, anche dagli altri del gruppo milanese: i nostri operai pendolari, per esempio, che andavano a Sesto a lavorare, per il solo fatto di provenire dalla Brianza venivano considerati paolotti dagli altri operai. Seconda caratteristica: abbiamo una propensione all’arte, che in gran parte della restante milanesità è poco presente. L’ho notato fin da ragazzo, e ne parlo all’inizio de Il Cavallo rosso: gli allievi delle nostre scuolette professionali di paese, anche serali, arrivavano con frequenza a vincere le competizioni provinciali, e non di raro nazionali (quando esistevano tali competizioni) in materie come il disegno, o il lavoro del ferro, o del legno. Per questo fatto, che la nostra gente è portata all’arte, in seguito abbiamo assistito a episodi addirittura clamorosi. Pensi a certi paesi: Carugo per esempio (ma ce ne sono anche altri, come Cabiate): ancora nel dopoguerra, lei lo sa, la gente di quei paesi viveva prevalentemente di agricoltura. A un certo punto ha avuto la possibilità di intraprendere un lavoro che le era più congeniale, quello della lavorazione del legno, della fabbricazione dei mobili: beh, da contadini sono diventati, quasi di colpo, tutti mobilieri. E che mobilieri! Sono artigiani veramente capaci, apprezzati ed esportatori in tutta Europa.

D. – Al giorno d’oggi però, una Brianza che non sia solo folcloristica, cosa offre dal punto di vista culturale?
R. – Quanto le ho appena detto, non le pare costituisca già qualcosa? In ogni caso la Brianza offre un àmbito, un golfo di gente con idee relativamente ancora poco imbastardite dall’attuale confusione nazionale. A Lissone, per esempio (altro paese di grandi produttori di mobili: il maggiore d Italia, se non sbaglio) quando poco tempo fa io vi sono stato per presentare il mio libro, mi sono imbattuto negli strascichi di una grossa polemica, provocata da un responsabile della cultura locale, il quale aveva dichiarato a uno scrittore in visita, che a Lissone non si leggono libri. Per fortuna, io dico. E’ una fortuna che nei paesi della Brianza non si leggano i libri che oggi vanno per la maggiore. Perché se si leggessero, le idee della gente verrebbero poco alla volta deteriorate, immiserite da tale lettura. D’altra parte – stando almeno alla mia modesta esperienza – i libri avvertiti come validi, come propri, vengono letti. Non voglio esaltare le mie opere, sarebbe ridicolo: però è un fatto che il mio diario di guerra I più non ritornano l’hanno letto anche molti operai e molte casalinghe; so che in alcune fabbriche della Brianza più di metà degli operai l’ha letto. La mia speranza è che adesso sempre più operai leggano anche Il Cavallo rosso, come hanno cominciato a fare.

D. – Vogliamo parlare di questo? E disposto a dirmi qual è l’atteggiamento dei lettori appunto nei riguardi del suo libro più importante. Il cavallo rosso?
R.- La domanda mi imbarazza.

D. – Beh, se non le va di rispondere…
R. – Vediamo… Per cominciare, davanti allo spessore del volume (sono più di milleduecento pagine, come lei sa) quasi tutti provano un senso di spavento, e parecchi, anche se ben disposti e culturalmente preparati, non riescono a superarlo. In quelli che si decidono a leggere, grazie a Dio subentra ben presto (diciamo dopo una quarantina di pagine) la volontà di continuare, poi un interesse sempre crescente. Nel corso della lettura le reazioni più frequenti mi sembra siano principalmente due: un’accentuata impressione di scoperta: “Ecco come sono andata veramente le cose in Italia e nel mondo… ecco qui la verità su ciò che è successo e che sta succedendo…”; e – seconda reazione – una sorta d’incantamento, di suggestione poetica prodotta dal racconto, per cui chi legge non se ne stacca sino all’ultima pagina, e alla fine gli spiace che la lettura abbia termine.

D. – Dobbiamo allora dire: un’impressione di verità e di bellezza?
R. – (Corti allarga le mani e annuisce con un sorriso): Sono molti i lettori che dicono così, e me lo scrivono. Potrei mostrarle molte lettere.

D. – Ho letto in diverse recensioni il convincimento che il suo romanzo resterà.
R. – Dunque speriamolo. Non pochi me l’hanno detto o scritto con convinzione. Auguriamoci che succeda realmente.

D. – Veniamo a un altro suo libro, Processo e morte di Stalin. Lei lo ha pubblicato parecchi anni fa.
R. – Sì, nel 1962. In quel libro si dimostrava (tenga presente: nel 1962, ventisei anni fa) l’impossibilità – intendo l’impossibilità materiale – di costruire la società comunista. Ma pochissimi hanno letto quel libro. Garzanti, che allora era il mio editore, non l’ha voluto pubblicare, e l’edizione – di una piccola casa editrice, e di poche copie – ha stentato diversi anni per esaurirsi. L’hanno letto invece in Russia, là sì: ne hanno letta la traduzione, che a quanto mi è stato assicurato è circolata nel samizdat, o autoeditoria clandestina. Anche in Polonia l’hanno letto, tradotto in quella lingua. Ma in fin dei conti si è trattato sempre di un numero ridotto di persone

D. – Lei ha pubblicato anche Il comunismo ‘realizzato’.
R. – Più tardi. E’ una raccolta di articoli e saggi in cui mi adoperavo per far conoscere le stragi – come abbiamo già detto: le maggiori della storia – operate dai comunisti. E’ uscito in un tempo in cui tutti gareggiavano nell’esaltare il marxismo e il suo tragicissimo sogno umanitario, scambiandolo, per la visione scientifica della realtà. A raccogliere quegli articoli in volume – ricordo – mi hanno convinto alcuni studenti di Verona, i quali affermavano che nella loro università (come in tutte le altre dei resto) si sentiva ormai solo la voce dei rossi. Pensi che è stato uno di loro, di quegli studenti, l’editore delle due prime edizioni del volume: in seguito non ha potuto fare la terza, perché era dovuto andare sotto le armi.

D. – Ma come è stato possibile che tanti altri giovani si innamorassero di miti quali il ‘Che’ Guevara e il marxismo?
R. – Da quando nel campo della cultura hanno prevalso i marxisti e i promarxisti, ai giovani viene proposto di continuo il modello del rivoluzionario. Così, poco alla volta, insensibilmente, il rivoluzionario e la rivoluzione sono diventati il loro ideale. Del resto molti giovani erano già pompati in tal senso dal mito del progresso inarrestabile, insito nella concezione laicista della storia. Pensi ai grandi subbugli del 68, quando gli studenti, non solo italiani, ma dell’intero Occidente, dopo avere preso il verbo dalle giovani ‘guardie rosse’ cinesi, hanno scatenato quella specie di confusa rivoluzione (per fortuna, qui in Occidente, soltanto verbale). Credevano davvero in slogans tipo “La fantasia al potere”, che venivano dalla Cina: non si rendevano conto che le ‘guardie rosse’ di là erano mosse dalla fazione più retriva del comunismo cinese, quella guidata dall’esercito, il quale usava le ‘guardie rosse’ come marionette per i propri fini. Chi, come il sottoscritto, cercava di avvertire i nostri ragazzi del loro abbaglio, veniva considerato né più ne meno, un deficiente: non lo ascoltavano, non ci si arrabbiavano neppure.

D. – In una simile situazione, quali sono state le debolezze del clero e dei parroci, soprattutto qui in Brianza? Proprio dalla Brianza era uscito Pio XI, il papa che aveva condannato solennemente il comunismo ateo. Almeno i preti avrebbero dovuto far memoria di quell’insegnamento.
R. – Non tutti i preti l’hanno dimenticato, infatti. Soltanto una parte, e in Brianza una minor parte. Certo troppi – nell’insieme del clero italiano – non hanno recepita la lezione filosofico-teologica di padre Cornelio Fabro, che li avrebbe difesi dal modernismo (ma si tratta di un lungo discorso…) Ad ogni modo succede questo: che in chi recepisce, anche in buona fede, qualcosa di sbagliato, l’errore genera poi inevitabilmente confusione. E la confusione finisce spesso col paralizzare.
[…]

D. – Mi dica: cosa si prova assistendo, coscientemente e impotenti, alla resa della cultura alla quale si appartiene?
R. – Si passa attraverso emozioni diverse, e tutte non allegre. Mentre uno è impegnato a lottare con ogni sua energia, si trova un po’ alla volta ad avere contro anche molti dei suoi, che sono frattanto passati ad altre impostazioni. A me è capitato, per esempio, col quotidiano cattolico Avvenire, che mi ha escluso proprio mentre scrivevo quegli articoli sulla Cina cui accennavo prima. Al pari di me ha escluso personaggi ben più importanti, come Mario Apollonio, ch’era allora una delle maggiori figure della cultura cristiana in Lombardia e in Italia: da un giorno all’altro non ha più potuto scrivere sul giornale cattolico (di cui era direttore Leonardo Valente: un povero sprovveduto, che quanto a intelligenza e cultura non valeva un decimo di Apollonio). In seguito Avvenire ha cambiato più volte, e oggi è un giornale indirizzato abbastanza bene, ma in quegli anni… Pensi che al principio della battaglia sul divorzio (direttore era diventato Narducci) Avvenire ha pubblicato anche diversi articoli, proclami ecc. a favore del divorzio. Il quotidiano cattolico!… Beh, stavo dicendo: ci si trova respinti, emarginati anche da molti che erano stati fino a poco prima nostri compagni di lotta: questa è una brutta sensazione. Qualcosa di simile però io l’avevo già sperimentato: non so se lei ricorda ne Il cavallo rosso i capitoli relativi alla rappresentazione teatrale a Roma: sono, né più né meno, la descrizione di ciò che mi è capitato nel 1962, durante la rappresentazione ad opera della compagnia di Diego Fabbri della mia tragedia Processo e morte di Stalin. Oltre le deprecazioni e gli sproloqui dei giornali marxisti, mi ha tirato addosso anche quelli del giornale democristiano, Il popolo! (Eppure ciò che allora io mi adoperavo a far conoscere in anteprima su Stalin, oggi lo scrivono gli stessi comunisti: solo che loro non arrivano nemmeno oggi a spiegarsi il vero perché delle sue incredibili stragi.)

Beh, l’emarginazione di per sé genera amarezza. Per uno, scrittore, tuttavia, l’isolamento può anche essere più propizio del successo: uno si trova ad avere molto più tempo per rifinire le sue pagine, in quanto non è disturbato da scadenze, né da altre immediatezze; inoltre è più portato al rigore verso sé stesso e il proprio lavoro. Del resto per un’esperienza non meno massiccia di emarginazione ero già passato ancora prima, subito dopo la guerra contro i tedeschi, cui avevo partecipato nelle file dell’esercito regolare. Avevo raggiunto l’esercito a fine 1943 nell’Italia del sud, attraversando fortunosamente le contrapposte linee tedesca e inglese; nel 1944 e 45 noi militari del Corpo italiano di liberazione avevamo combattuto non meno dei partigiani, e anche il numero, complessivo dei nostri morti non era stato inferiore al loro. Pure, dopo la guerra, era molto se i partigiani vittoriosi e i politici innalzati al potere dalla resistenza (loro usano con prosopopea la R maiuscola), ci tributavano qualche stentato riconoscimento verbale. Non abbiamo certo ricevuto, premi, né posti nelle amministrazioni, o dove che sia, e (ciò che più pesava) neanche considerazione per quanto avevamo fatto, al punto che oggi nessuno sa niente del Corpo italiano di Liberazione…

D. – Infatti.
R. – Finita la guerra mentre, nell’estate e nell’autunno 45, montavamo la guardia al confine tridentino, i soldati a volte se ne lamentavano. Ma – come io ripetevo loro – era meglio così: perché nessuno di noi si è esaltato, e il nostro giudizio sulle cose è rimasto obiettivo, integro, non è diventato parziale o fazioso. Grazie a quella dura esperienza d’emarginazione, dopo avere combattuto per la libertà, abbiamo conservate le nostre menti effettivamente libere.

D. – Oltre a una simile consapevolezza, cos’è che l’ha confortata di più al momento della frana della cultura cattolica?
R. – Anzitutto il convincimento di essere nel giusto (questo viene prima d’ogni altra cosa): il convincimento cioè di vedere le cose come sono davvero, secondo verità. Mi confortava poi la concordanza con me di determinate persone che stimavo, a cominciare proprio da Apollonio. Ed anche il comportamento esemplare d’interi gruppi, per esempio della gente dell’Opus Dei, e dei ragazzi di Comunione e Liberazione (i quali, in occasione della campagna contro il divorzio, hanno mostrata una disponibilità al limite del sacrificio). Non basta, non so se questo la sorprenderà, ma il comportamento di un altro gruppo umano mi è stato spiritualmente d’aiuto: parlo degli alpini (cui io non appartengo, ma che conosco bene). Era meraviglioso vedere come la frana civile non li facesse vacillare, precisamente come non li aveva impauriti durante la guerra il cedimento di altri corpi sul loro stesso fronte. In seguito poi, una volta uscito 1l Cavallo rosso, sono cominciate le adesioni di lettori sempre più numerosi, un numero, grazie a Dio, davvero grande. Sono stati e sono soprattutto i loro consensi (certe lettere in particolare, di gente d’ogni età e cultura, dall’operaio al professore universitario) a convincermi definitivamente di non avere sprecato il mio tempo. C’erano anche i miei amici personali, i quali anzi sono aumentati di numero: uomini di cultura con cui ho finito con lo stringere sempre più i rapporti. Ho nominato prima Cesare Cavalleri, e non le sto a nominare gli altri, ma anche da loro mi è venuto, e mi viene, un grande sostegno.

D. – Sono tutti letterati, come il critico Cavalleri?
R. – No, sono soprattutto filosofi, e alcuni molto noti, perché la filosofia – che ha sempre avuto tirature più modeste, ed è quindi meno condizionata dagli editori e dai mass media – non è stata espropriata quanto la letteratura.

D. – Tra loro c’è forse Augusto Del Noce?
R. – Sì. in prima linea. E con lui padre Cornelio Fabro, che ho ricordato poco fa, il quale prima d’essermi amico mi è stato grande maestro: anzitutto con la sua dimostrazione stringente, indimenticabile, dello sbocco – nel nostro tempo – dell’immanentismo (cioè del ripudio della trascendenza, del ripudio di Dio) nel nichilismo, ossia nel nulla. Insieme a Del Noce e a padre Fabro ho anche altri amici filosofi.

D. – Mi dica francamente: tutto considerato non c’è stato per caso tra i cattolici un venir meno della creatività? E quanto alla cultura, in cosa consiste ormai, in fin dei conti, la cultura cattolica?
R. – Come può parlare di caduta della creatività dopo i nomi che le ho appena citato? Quanto alla cultura, le definizioni sono molte. Se consideriamo – senza alcuna pretesa d’originalità – cultura l’insieme delle convinzioni, delle conoscenze, e dei comportamenti che caratterizzano un individuo o un gruppo, vediamo che la cultura cattolica si diversifica da tutte le altre a causa della trascendenza cristiana, per la quale la vita definitiva dell’uomo non è questa terrena: noi non possiamo mai essere completamente “di questo mondo” come gli altri. Ciononostante la cultura cattolica (grazie alla Verità che la permea, e alla possibilità di spaziare in qualche modo anche nell’àmbito, della sopra natura) ha prodotto via via in questo mondo le maggiori opere di filosofia, di arte, di letteratura, di convivenza umana, insomma di civiltà, dei trascorsi duemila anni: lei lo sa bene. Nel corso del nostro secolo la scristianizzazione di due nazioni in diverso modo all’avanguardia della modernità, ha invece portato da un lato al cannibalismo programmato, e dall’altro alle camere a gas. Di una simile improvvisa retrocessione dalla condizione civile a quella cavernicola e peggio, la cultura laica non sa darsi una spiegazione valida (il ‘culto della personalità’ non spiega minimamente le centinaia di milioni di morti fatti dai comunisti, e i nazisti non erano affatto dei gangster come vorrebbe Brecht, erano qualcosa di ben più pericoloso, e di completamente diverso). Noi, grazie alla più completa visione di cui disponiamo, possiamo darci la spiegazione di tale realtà, e la possiamo mettere a disposizione di tutti.

D. – Anche qui: con che risultato?
R. – Per il momento la nostra voce non riesce quasi a farsi sentire, d’accordo. Comunque è l’unica che spieghi davvero le enormità di barbarie che si sono succedute nel nostro secolo, e che potrebbero ripetersi in avvenire. Lei mi chiedeva se per caso non ci sia stato tra i cattolici un venir meno della creatività. No, le ripeto, non si tratta di questo: nel campo della nostra cultura si è instaurata la divisione, e una delle due parti – quella cattocomunista, con tutti i suoi annessi – costituisce un vero e proprio prolungamento nel nostro àmbito della cultura acristiana. Se uno di noi produce in modo valido, ma non è visto di buon occhio dalla fazione cattocomunista, il giudizio su di lui rimane quanto meno sospeso. Cosicché egli non può essere del tutto presente neppure nello stesso àmbito cattolico, per esempio nei nostri licei (che pure esistono ancora, e sono magari fiorenti), o nell’università cattolica, che finisce con l’ignorarlo. (Non c’è più un Mario Apollonio, e mentre sono sempre validi i docenti di economia, legge, medicina, e insomma delle facoltà scientifiche, gli ometti che insegnano oggi lettere e umanesimo non se la sentono d’inimicarsi i loro colleghi cattocomunisti e soprattutto hanno paura di uscir fuori dai binari imposti a tutti da quegli altri ometti, però egemoni, che spadroneggiano nella repubblica delle lettere. Oggi dunque è anzitutto la divisione tra noi che ci tiene fuori gioco.

D. – Da dove dovremmo partire, e come fare, per ricostruire la cultura cattolica?
R. – Il problema che condiziona il resto è ristabilire una nostra unità, assecondando, in tutti i modi gli sforzi in questo senso del Papa. Nel frattempo noi che facciamo professione di cultura, non dobbiamo, limitarci a individuare gli errori e le deficienze della cultura egemone marxista-laicista (forse, tra poco, soltanto laicista), ma operare soprattutto in positivo, producendo opere nostre. Non importa se, in un primo tempo, saranno pochi intorno a noi – una minoranza degli stessi cristiani – a fruirne. Nell’àmbito della letteratura dunque noi  dobbiamo limitarci a far notare come gli autori laicisti – anche quelli dotati e bravissimi – a causa del loro nichilismo non possono che produrre cose sempre più vicine al nulla. Dobbiamo, certo con spirito di modestia, dimostrare nei fatti che la nostra concezione ci consente – oggi come nei secoli passati – di produrre opere di valore: anche di grande valore. E in tale nostro operare che Dio ci aiuti, come ha aiutato coloro che ci hanno preceduto.

(ottobre 1988, I Quaderni della Brianza)