Missione divina contro Stalin

Eugenio CortiIl Cavallo rosso di Eugenio Corti è giunto alla 25esima edizione. Per festeggiare l’evento la casa editrice Ares ha pubblicato un’edizione di lusso che ripropone in copertina la storica immagine, tratta da un’opera di Theodore Garicault, che apparve ai lettori nel maggio del 1983. E il 10 dicembre a Milano, a Palazzo Reale, ci sarà un convegno dedicato al grande scrittore lombardo.

Abbiamo incontrato Corti nella sua grande casa di Besana in Brianza, che era un’antica fabbrica tessile dell’800. Dopo un lungo e affettuoso “assedio” ha accettato di aprire il suo archivio e ci ha consentito di curiosare nella grande scatola che contiene il manoscritto del suo capolavoro. Al suo interno sono ordinate meticolosamente migliaia e migliaia di pagine, scritte fittissimamente a matita (Corti continua a scrivere con la matita), che costituiscono la fucina di uno dei più importanti romanzi dell’Italia del dopoguerra. Nel curiosare tra le carte si nota una quantità di correzioni, cancellature e varianti che farebbero la felicità di qualsiasi filologo.

Lo stesso incipit del primo capitolo è mutato. Nel testo dato alle stampe si legge: «Fine di maggio 1940; avanzando lenti uno a fianco dell’altro Ferrante e suo figlio Stefano falciavano il prato. Alle loro spalle il cavallino sauro attendeva attaccato al carro…». Ecco invece la versione del primo manoscritto con il gerundio d’apertura: «Avanzando lenti ma a fianco dell’altro Stefano e suo padre Ferrante falciavano il prato. Era la fine del maggio 1940…».

La conversazione muove da una mia esclamazione di sorpresa nel vedere un oggetto insolito nella stanza da letto dello scrittore. Si tratta di un crocifisso argentato e mutilato su una croce spezzata di colore nero. Il corpo del Cristo è tagliato all’altezza del torace. Manca un braccio. Sotto una piccola targa che recita: «Montecarotto, agosto 1944».

Mi racconti questa storia.
«È un episodio che forse nei dettagli non ho mai raccontato. Se le cose quel giorno fossero andate diversamente non avrei mai scritto Il cavallo rosso. È stata la volta in cui sono stato più vicino alla morte. Si tratta di un episodio della guerra in Italia contro i tedeschi. Era l’agosto del 1944 ed ero con il Corpo di Liberazione a Montecarotto, nelle Marche. Con i miei soldati d’artiglieria della Pattuglia di Osservazione (il caporale Ugo Freddi, l’artigliere Albino Morandi, il mio attendente, e altri due o tre) avevamo sistemato un provvisorio osservatorio nella stanza di un ospedale abbandonato. Le persiane delle finestre erano tutte chiuse, ma io avevo tolto un listello di una persiana per scrutare quanto accadeva nei dintorni.

Eravamo dietro una finestra lunga fino al pavimento con il goniometro e il resto della strumentazione. D’improvviso tra gli ulivi comparvero dei semoventi tedeschi che montavano cannoni da 105 mm. Erano distanti circa 1,5 km. Pensavo di essere un veterano della guerra e che il nostro rifugio fosse sicuro, ma evidentemente uno dei tedeschi ne sapeva più di me. Si accorse infatti della mancanza di un listello nella finestra: era un indizio che poteva rivelare un punto di osservazione. I semoventi iniziarono subito a sparare contro la nostra finestra. Il primo colpo esplose nell’aria a qualche metro da noi: la finestra si spalancò completamente mettendo allo scoperto la nostra presenza. Il fuoco si fece allora tambureggiante. Due granate a percussione forarono la parete dell’ospedale entrando nella stanza alla nostra sinistra, che era stato il dormitorio delle monache. Se qualche granata avesse infilato la nostra finestra, per noi non ci sarebbe stato scampo. Un’altra granata esplose nella parete dell’ospedale a circa due metri dai miei piedi. Nell’impatto, soltanto un frammento insignificante di muro salì a colpirmi il collo senza farmi danno. Quella scheggia aveva le dimensioni di un chicco di granturco. Uscimmo da quella Babilonia di fuoco indenni. Sono convinto che in quell’episodio ci sia stato nei miei confronti un intervento macroscopico del mio angelo custode e di quelli dei miei compagni.

Evidentemente dovevo sopravvivere per scrivere… Se penso a come ci avrebbe ridotti l’esplosione di due granate da 105 mm che pesavano ciascuna 15 kg… Più tardi raccolsi in quel locale un crocifisso che giaceva sul pavimento. La croce e parte della figura di Cristo, come può vedere, sono state strappate dai colpi. Da quel giorno conservo quel crocifisso come un’icona sopra il letto della mia stanza».

Tra la campagna di Russia e quella per la liberazione dell’Italia non deve essere l’unica volta in cui ha dato del tu alla morte…
«Un altro evento miracoloso accadde durante la ritirata di Russia. In un subisso di colpi nei dintorni di Arbusov, nella cosiddetta “Valle della morte”, avvertii un piccolo urto tra la nuca e il collo, mi abbassai e continuai a correre. Chiaramente doveva trattarsi del colpo di uno di quei tiratori scelti che in modo di norma sempre infallibile miravano alla testa. Quasi certamente aveva notato il mio pastrano da ufficiale. Quando mi potei fermare, sfilai il passamontagna e mi accorsi che era stato trapassato da una pallottola: mi aveva sfiorato la testa senza ferirmi. Credo che mi abbiano salvato le preghiere che mia madre rivolgeva incessantemente alla Madonna perché potessi tornare. C’è poi un altro episodio inedito della guerra in Italia. Mi trovavo su una strada di montagna della Val del Senio con un amico, in prossimità del fronte di Bologna. Volevo andare a trovare mio fratello Achille che era schierato con le nostre truppe più in basso nella vallata. Ero sceso un attimo dalla moto per una breve sosta. Pensavamo fosse una zona sicura, ma d’improvviso un colpo di cannone anticarro tedesco passò tra noi due, andando a conficcarsi sul pendio della montagna immediatamente al nostro fianco. Tra me e il mio compagno c’era una distanza di circa un metro…».

Si sarebbe mai aspettato un successo del genere con Il cavallo rosso?
«Beh, ero già contento quanto l’editore mi scrisse che si sarebbe fatta una seconda edizione, ma certo, ero convinto che le edizioni sarebbero state molte, tenuto anche conto che avevo lavorato al romanzo per undici anni».

Quali sono le novità sulla diffusione dell’opera?
«La traduzione in serbo è stata appena presentata alla Fiera del libro di Belgrado, è stata appena conclusa la traduzione in olandese, che uscirà in febbraio; mentre è in corso quella in croato, che dovrebbe essere pronta per aprile; purtroppo è stata invece sospesa la traduzione in polacco a causa del fallimento della casa editrice. A breve avrò notizia delle trattative per la traduzione in portoghese».

Negli ultimi tempi si è tornato a parlare degli scrittori perseguitati dai regimi comunisti, da Salamov a Grossman. In fondo anche lei ha avuto non poche traversie in Italia a causa delle sue idee…

«Il primo libro che scrissi fu I più non ritornano, pubblicato da Garzanti nel 1947, quando era difficile stampare i libri per mancanza di carta. Si trattava del primo o secondo libro in Italia che trattasse della ritirata di Russia. Si affermò subito, anche grazie alla recensione molto favorevole di Mario Apollonio. Il libro ebbe molte edizioni. L’esplosione dei miei guai fu però nel 1962, quando presentai a Garzanti il mio Processo e morte di Stalin. In quegli anni infatti era in corso l’inquadramento di quasi tutti gli editori italiani secondo lo schema gramsciano. Questo accadde anche in Garzanti, che non solo rifiutò il mio nuovo libro, ma mi disse che se intendevo scrivere altre cose secondo quell’orientamento, avrebbero tolto dal catalogo anche il primo libro. E infatti accadde proprio questo; così dovetti proporlo a Mursia, un casa editrice non contaminata dal condizionamento gramsciano, e che si stava specializzando in pubblicazioni di guerra dopo il grande successo riscosso dalle Centomila gavette di ghiaccio di Bedeschi. In seguito alle mie pubblicazioni, venni sempre più emarginato dalla cultura dominante, i critici della carta stampata e della tv hanno accuratamente mantenuto il silenzio su di me, anche se nessuno mi ha attaccato apertamente, come invece mi è capitato in Francia. Hanno capito che la cosa più importante era non parlare affatto del mio lavoro».

Cosa pensa dei grandi scrittori perseguitati dal regime sovietico?
«Mi sento molto sodale con tutti coloro che furono perseguitati e in particolare con i molti fucilati dal regime. Solzenicyn approfittò delle prime aperture dei dirigenti comunisti nei confronti della libertà di espressione per avviare la pubblicazione di una serie di libri che hanno letteralmente (anche se gradualmente) sconvolto l’intero panorama culturale russo. È stato un grande scrittore che ha combattuto per la libertà della cultura nel XX secolo, ostacolato da molti non solo nella sua patria, ma nel mondo intero. Ancora oggi molte delle sue opere non sono state tradotte in italiano.

Grossman fu un autore grandemente apprezzato in Russia per le sue corrispondenze dal fronte, per le cronache della lotta al nazismo; quando poi Stalin iniziò la persecuzione contro il popolo ebraico Grossman, che vi apparteneva, ebbe una sorta di grande illuminazione, che lo portò a scrivere Vita e destino, la sua opera maggiore, che fu sequestrata dalla polizia comunista e tenuta nei cassetti fino alla morte dell’autore. Il manoscritto fu pubblicato per la prima volta in Francia da Vladimir Dimitrijevic, direttore della casa editrice l’Age d’Homme, che è il mio editore d’Oltralpe. Dimitrijevic mi ha riferito tutte le fasi burrascose dell’operazione».

(Alessandro Rivali, Libero, 05/12/2009)