“Questa notte i topi seppelliranno il gatto”

Processo e morte di Stalin

L’editrice francese L’Age d’Homme, principale traduttrice dei testi del dissenso russo, ha pubblicato quest’anno un libro che era già circolato nell’Unione Sovietica come “samizdat, stampa clandestina contro il regime.

Il suo titolo è Processo e morte di Stalin (Tragedia) che, arricchito da nuovi saggi, riappare in questi giorni in Italia per i tipi delle edizioni Ares. L’autore, Eugenio Corti, le cui opere sono tradotte in spagnolo, lituano, polacco (fu insignito d’una onorificenza di prestigio dal governo democratico di Varsavia, allora in esilio a Londra), affronta in quest’opera redatta in forma teatrale di diciotto episodi, tre soliloqui, sei cori e un epilogo, uno degli eventi piu truci, per modalità e implicazioni, della storia bolscevica: il crollo del dittatore.

II fatto si svolse con tratti cupi e inquietanti degni dei regicidi di Shakespeare e della filmografia proto-zarista di Eisenstein. La morte fisica di Stalin fu affrettata da uno scontro politico e dalla furia che di lui si impadronì alle ore 21.50 di giovedl 5 marzo 1953. “II complotto dei medici terroristi come Vovsi, Vinogradov, Egorov, Feldman, Ettinger, Grinstein, Majorov e Kogan, prontamente già arrestati, rende necessaria l’immediata deportazione in massa di elementi ebraici in Asia centrale e nella regione del Birobidzan”, aveva esordito Stalin in una riunione del Politburo negli uffici del Cremlino. Il maresciallo Kliment Voroscilov che notoriamente amava, riamato, l’ebrea Ekaterina, cavò d’impeto di tasca la tessera del partito bolscevico e la gettò platealmente sul tavolo. “L’espulsione degli ebrei viola l’onore del partito di Lenin. Io non intendo, neppure per un momento ancora, appartenere a un’organizzazione che si macchi di un orrore così grande”, urlò Voroscilov.

A Stalin, in tal modo contraddetto, montò letteralmente il sangue alla testa: fece uno sforzo per controllarsi. “Compagno Kliment, sono io a decidere quando non potrai più tenere quella tessera”, sibilò. E crollò di schianto sul pavimento. Medici importanti come gli arrestati non ve n’erano a disposizione e vennero perduti (o consapevolmente attesi), vari minuti preziosi prima di gettare l’allarme.

Accadde l’incredibile. Lavrentij Berija, responsabile del Kgb, la polizia politica, iniziò un balletto attorno al corpo esanime, gridando: “Siamo liberi. Finalmente, finalmente. Compagni il tiranno è morto, possiamo respirare”. Gli altri presenti, impietriti dal terrore, rimasero inerti al loro posto. Nessuno osò toccare il corpo di Stalin che rimase a terra.

Improvvisamente, inopinatamente, gli si aprì un occhio e poi l’altro. Si alzò per poco un braccio. Berija, allora, si buttò sul corpo del caduto. Gli abbracciò le ginocchia. Istericamente, disse: “Perdono, padre, perdono”. Chiamata da qualcuno, la figlia Svetlana apparve sul vano della porta. Lacrime sincere sgorgarono dai suoi occhi. Poi, due medici della Kommandatura del Cremlino, sollevarono il corpo esanime del Gensek, il dittatore, e lo trasportarono nell’attiguo appartamento privato. Gli occhi si chiusero per sempre. Un’ora più tardi, Stalin, come affamato di ossigeno, le labbra nere, spirò senza avere ripreso conoscenza. Aveva settantatre anni.

Dinanzi a Voroscilov, Molotov, Bulganin Ponomariov, Malenkov, Kaganovic, Kosinkin, capo della Guardia, accorso senza fiato, Krusciov pronunziò, sarcastico, una frase. “Stanotte, i topi hanno seppellito il gatto”, sentenziò. II solo a piangere, era Vladimir Nikiforovic Malin, il segretario del Capo.

Corti, nella sua Tragedia, racconta i momenti precedenti all’evento della morte, l’incontro con l’ambasciatore dell’India, Ménon, che fu l’ultimo ad essere ricevuto prima della riunione, e immagina il verosimile complotto imbastito da Stalin contro i suoi collaboratori del Politburo, da lui stesso ritenuti ormai inaffidabili: e perciò degni di morire.

“Lenin, maestro nostro, che da trent’anni giaci nella tua tomba di cristallo. Io sono oggi più solo che mai” recita Stalin nel suo primo soliloquio della Tragedia. Nel libro “Venti lettere a un amico” di Svetlana Aliluieva, figlia della moglie di Stalin, suicidatasi dopo un aspro litigio con lui (citato da Corti), è scritto che il padre “era isolato da tutti, così portato alle stelle che intorno a lui si era formato il vuoto: non aveva nessuno con cui scambiare una parola… Era un sistema nel quale soffocava a causa della mancanza di gente, della solitudine, del vuoto”.

Il figlio del dittatore, Jascia, fatto prigioniero dai tedeschi, si era avventato su un reticolato elettrico del lager nazista ed era morto, folgorato all’istante. Aveva saputo dall’interessata cura dei comandanti del campo che suo padre aveva rifiutato di scambiarlo con un generale tedesco. “Non si scambia un generale con un semplice comandante di batteria”, aveva sentenziato il dittatore.

L’autore Eugenio Corti ricorda che pochissimi, forse uno solo, furono i superstiti dei numerosi parenti della prima moglie, gli Svanidze, e della seconda. Tutti, comunque, subirono la deportazione. Due cognati furono fucilati, quattro cognate incarcerate, Fiodor impazzì nel corso di speciali esercitazioni militari, che lo trasformarono in un relitto privato di volontà. Gli stessi parenti ebrei dei capi della nomenklatura, avevano fatto la stessa fine. La moglie di Molotov era stata esiliata nel Kazakhstan, senza che il marito dicesse una parola dopo essersi limitato semplicemente ad avvisaria dell’imminenza dell’arresto. La moglie di Alexandr Poskrebjsev, primo assistente politico di Stalin, era stata fatta sparire, risucchiata in un gulag lungo il Mar Bianco. Sorte migliore non toccò neppure a Nadodza, moglie israelita di Bulganin, né a Marija, consorte di Kaganovic e neppure al genero ebreo di Krusciov.

“Tremende verità disinvoltamente taciute”, scrive Corti nei suoi saggi aggiunti alla Tragedia, altre tragedie nella corale persecuzione estesa dalla Russia alla Cina, la Cambogia, a Viet Nam. Tragedie anticipate dagli olocausti nazisti. Stragi perpetrate due secoli prima, nel febbraio del 1793, nella Vandea francese che insorse contro la Parigi rivoluzionaria dei Babeuf e dei Robespierre. Le “noyades”, gli annegamenti nella Loira ordinati da Carrier, delegato della Convenzione, costituiscono un agghiacciante precedente che il generale convenzionale Turreau precisò: “Tutti i villaggi, tutti i boschi, le macchie e tutto quanto può essere bruciato, sarà dato alle fiamme”.

Temi che l’autore evoca e documenta e che gli storici non di regime hanno rivisitato e reinterpretato. L’autore immagina, nella sua Tragedia, che i collaboratori del dittatore, ribellatisi a lui, lo riescono a narcotizzare e a simulare un’emorragia cerebrale perché, cosi umiliato, sopravviva per ore, con sofferenza. “Rozzo e lunatico” (come lo giudicò persino Lenin), Stalin commise crimini tali che “riempiranno tutti i comunisti e il mondo intero d’uno sdegno tale che diverrà impossibile a chiunque di ripeterli”. Lo sostenne Krusciov nel suo rapporto-denunzia del 1963. Basterà per sempre questa accusa di un complice del sistema? Per ora sembra di sì. Intanto, Eugenio Corti adempie con impegno al ruolo essenziale e permanente di affibbiare un efficace “schiaffo allo stalinismo” e alimenta la certezza che i valori spirituali dell’uomo non soccomberanno.

(Massimo Caprara, Il Giornale, 21/08/1999)