Nobel a Corti, parla don Mario Cazzaniga

Eugenio Corti

Eugenio Corti

Sì, siamo andati a trovare proprio lui, il ”caro don Mario” de Il cavallo rosso. Quel prete che – nel romanzo- redarguisce i monelli che se la stanno prendendo con il deficiente del paese, quello che prega davanti al tabernacolo per i suoi ”figli” sequestrati dai vari fronti di guerra, quello che contribuisce a convertire il Foresto, comunista tutto d’un pezzo. Un sacerdote, il don Mario, che esercita il suo ministero con impegno, nelle corsie d’ospedale a Monza, alla veneranda età di 95 anni.

Monza – «Un po’ scrittore, un po’ poeta, mistico ed esploratore». Così il cardinale Carlo Maria Martini ha definito monsignor Mario Cazzaniga, da cinquantacinque anni cappellano all’ospedale San Gerardo: oltre 90.000 battesimi celebrati e una passione sfrenata per i viaggi, con più di 3.000 ore di volo all’attivo. Sguardo luminoso, sorriso aperto, pronto alla battuta e disponibile con chiunque, in quest’uomo di novantacinque anni meravigliosamente portati si ritrovano quegli stessi tratti forti e delicati di don Mario, viceparroco a Nomana, raccontato dalla penna di Eugenio Corti nel suo «Il cavallo rosso».

Da quanti anni conosce Corti?

«Da sempre. Quando arrivai a Besana, subito dopo la mia ordinazione sacerdotale (avvenuta nel 1944, ndr), conobbi subito Eugenio e la sua famiglia. Erano persone splendide, soprattutto la mamma Irma, davvero una donna santa. Eugenio allora frequentava l’università e volentieri passavamo delle ore a parlare di fede e letteratura».

Come è nata l’idea di inserirla all’interno del libro?

«A Corti serviva qualcuno che raccontasse quegli anni terribili: dalla sciagurata entrata dell’Italia in guerra all’armistizio fino alle lotte civili. Ho visto tanti dei miei ragazzi del paese partire e non tornare più. Mi ricordo ancora quando arrivò la cartolina anche a Eugenio, che fu mandato in Russia. La mamma allora mi faceva celebrare una messa al giorno perché tornasse a casa sano e salvo. Arrivò anche a me, dopo appena tre mesi dal mio ingresso in seminario. Ero spaventato e anche arrabbiato con il Signore per quello che mi stava accadendo. Poi a salvarmi fu il cardinale Schuster, che mi ordinò subdiacono, salvandomi dalla guerra».

Qual è tra i personaggi descritti da Corti quello che più ricorda?

«Certamente il Foresto. Un giorno arrivò in paese un uomo mandato dal partito comunista per cercare di fare proseliti. Era un omone alto e grosso e si accompagnava a un cane da caccia che faceva paura solo a vederlo. La gente di Besana (che nel romanzo è chiamata Nomana, ndr) era terrorizzata dalla sua presenza. Provai ad avvicinarlo ma non mi volle nemmeno parlare. Poi si ammalò gravemente e venne ricoverato all’ospedaletto del paese. E siccome l’ospedale è il campo di atterraggio di Dio, quei suoi mesi di degenza ci fornirono il pretesto per cominciare a conoscerci. Parlavamo di Tolstoj e Dostoevskij, e poco alla volta finimmo per parlare anche di Dio. Prima di morire mi chiese di fargli la comunione e di confessarlo. Quando spirò per lui feci suonare le campane dell’agonia, mentre fuori i suoi compagni di partito mi minacciavano, dicendomi che lo avevo rovinato e che mai avrebbero permesso che il loro amico avesse un funerale religioso. E invece fui proprio io a celebrarlo. Ed è bellissimo il racconto che fa Corti di questo episodio, e quello che dice del Foresto, “che se ne andò salvato”».

Cosa ne pensa della proposta di candidare Corti al premio Nobel?

«Sono più che contento. Dalle pagine del suo libro emerge pulita la figura del sacerdote davvero come un servo del Signore, incaricato dell’educazione dei giovani. Ed è quello che ho cercato di fare anche io in tutti questi anni».

(Sarah Valtolina – Il Cittadino MB – 01/09/2010)