La recensione di Mario Apollonio a I più non ritornano

La prima impressione che produce questo libro tremendo è che sia un libro di cronaca; così vera e greve e tetra da diventare selvaggia. E cronaca rimane, beninteso; ma c’è ben altro (c’è, dietro la realtà, la verità). Cronaca della ritirata di Russia; la “sacca” di alcune migliaia di uomini dell’Armir, che la rottura del fronte del Don ha tagliato dalle retrovie: senza automezzi, senz’armi, senza viveri, battuti, laceri. Perdono subito ogni consistenza di esercito; anzi, la storia s’inizia quando l’hanno già perduta, quando il loro destino è deciso, quasi indipendentemente dalla volontà e dalla forza e dagli accorgimenti umani.

L’esecutore più spietato, ma cieco, della sentenza, è il freddo, con il suo compagno, il vento; e sotto la coltre bianca di neve, la terra dorme, insensibile. E su quella superficie immensa si agitano gesti di fantocci umani, mescolati nella stessa sciagura, siano Italiani (hanno capito subito di che si tratta: e le loro parole sono una melopea disperata, un compianto d’uomini che confessano la loro umanità primordiale, che si afflosciano e piangono, subito sul comune livello della umanità primordiale), siano Russi (fuori o dentro le linee; quei miserabili straziati dal tallone dell’invasore; quei combattenti senza volto, che muoiono e sparano, automi remoti; quei cadaveri, irrigiditi dal freddo in sorprendenti posture; quei fantasmi notturni della guerra partigiana), siano Tedeschi (serbano fin quasi all’ultimo l’orgoglio del gesto, il puntiglio dell’ossequio all’ordine e all’organismo astratto, l’egoismo feroce di chi difende un’umanità solo obbediente; ma alla fine si ritrovano al livello dove fin da principio s’erano posti Italiani ex-soldati e i Russi civili, donne, vecchi e bambini).

Diario dal pomeriggio del 19 dicembre 1942 alla notte sul 17 gennaio 1943, di un ufficiale d’artiglieria della divisione Pasubio, XXXV corpo d’Armata: Pasubio, corpo d’Armata, Armir: ma nel racconto, questi nomi appartengono ad una favolosa preistoria, nemmeno più rimpianta, mentre si celebra quell’immenso Giudizio di Dio. “Pregate che ciò non avvenga d’inverno”: il Vangelo della fine del mondo serve d’epigrafe al libro.

Dunque non è narrazione soltanto di cose: le cose sono tutte reali, e potranno, documentate con quell’evidenza impressionante, immediata, che assale alla lettura e alla tortura, non filtrata traverso nessuno dei piaceri della memoria, servire allo storico, se varrà davvero la pena che gli storici di domani tentino di frapporre fra questa realtà e questa verità i loro castellucci delle loro ricostruzioni congetturali soddisfatte d’essere intellettualmente perite.

Potranno anche servire al polemista politico. Ma qui servono a ben altro. La politica, la polemica, l’intelligenza, il gusto, non solo, ma il conforto stesso e la legittimità di servirsi dell’intelletto per darsi una ragione di quanto accade, sono tutte presenze e forze superflue, stanno in disparte, mute, mentre si celebra il dramma: come testimoni senza voce, cui gli accusati guardano di tanto in tanto, dalla gabbia dove sono chiusi. E sono proprio queste realtà che a noi sembrano tanto importanti e quotidiane, la realtà della politica, della organizzazione bellica, della disciplina, che ci aiutano a capire che qui, in questo anello di miserie atroci e, tutto sommato, di vittoria umana, si tocca la realtà che davvero importa: salvarsi; dopo la stessa salvezza del corpo, approdare fuor dalla “sacca” alla riva, diventa poco più che un’allegoria della salvezza interiore, che nella sofferenza non cessa mai di stare avvinghiata alla Speranza.

Letterariamente parlando, sarà un problema interessante misurar la potenza di questa notazione immediata che capovolge in dramma il documento (cioè in fantasia: ma fantasia più vera della realtà, intendo: guai a considerar questa cronaca alla stregua di un gioco di trasfigurazione, ad arbitrio dello scrittore: ogni più pesante pagina fra Steinbeck e Hemingwai parrà uno svolazzo calligrafico, un arabesco documentario, a paragone di questo romanzo-poema-dramma-storia).

Le Noterelle di uno dei Mille, tanto per divagare in un territorio osservato, guadagnarono a poco a poco, con un lunghissimo processo di approssimazione, il senso dell’immediatezza. Qui il senso dell’immediatezza è guadagnato d’un tratto, per l’atrocità e la necessità del caso, e con la rinuncia a quei soccorsi di letteratura, di pathos e d’epopea carducciana, giocata sopra la commozione eloquente, che servivano ad Abba per toccar fondo; e da quell’immediatezza si procede in tutte le direzioni e in una sola: la scoperta del processo spirituale, la ragione tragica e provvidenziale del dramma, subito intesa, sempre paurosamente presente. Questa scoperta non ha storia: avviene, e basta. Dopo aver rinunciato, per salvarsi, ai soccorsi dell’intelletto e della cultura, è naturale che Corti non accetti di percorrere, per giungere alla verità, la strada delle riflessioni e delle induzioni. Sono tutte cose che vissero ed ebbero amore e fulgore in una vita di prima: anche l’orgoglio guerriero, con loro, il ricordo dell’esercito terribile in campo, le gesta della divisione alpina.

Lo spazio è poco, per dir di un libro che rimarrà memorabile, e degli innumerevoli episodi che compongono la trama dell’epopea. Ma vorremmo offrirne quasi la chiave altrimenti che con un discorso troppo succinto, con una breve pagina:

“Il carabiniere – amico d’uno dei nostri uomini – mi raccontò anche una strana avventura che gli era capitata ad Arbusov.

Si trovava a far capannello con altri quattro o cinque soldati, quando in mezzo a loro era esploso un razzo di katiuscia, che aveva abbattuto tutti, lasciando in piedi lui solo. L’impressione era sata fortissima, anche perché gli altri apparivano letteralmente dilaniati: uno aveva avuta la parte anteriore del torace asportata di netto da uno scheggione: si vedevano polmone, cuore e stomaco intatti: ‘Come si fosse aperto un libro’ mi spiegò.

Per il trauma il carabiniere era uscito di sé, e s’era convinto d’essere morto: non era più lui che viveva, ma la sua anima. Era rimasto in tale condizione per alcuni giorni, finché, trovato del cibo, si era potuto rinforzare un poco. Durante quel periodo andava all’attacco con gl’Italiani, e li incitava con la voce e col gesto; non sparava però, e non si riparava dal piombo nemico, perché un morto non può né uccidere né essere ucciso.”

Un episodio immenso; la guerra dei fantasmi, dei morti vivi, o Dostojevskij doppiato su Luigi Pulci.

(Mario Apollonio, L’Italia, 22/07/47)