Perché è fallito il Comunismo nell’URSS?

L'esperimento comunistaIl tentativo di ‘costruire il comunismo’ nell’Unione Sovietica si configura sempre più come un’esperienza di rilevanza enorme: lo si potrebbe definire il primo grande tentativo di tipo ‘post-cristiano’ per eliminare il male dalla società.

All’origine di questa prometeica e tragicissima impresa sta la concezione della realtà in Marx, così com’è stata recepita da Lenin. (A monte del marxismo-leninismo sta la filosofia tedesca, in particolare il materialismo di Feuerbach, e l’idealismo dialettico di Hegel; e a monte di questa filosofia sta la presunzione sistematica, da parte dell’uomo sottrattosi alla ‘tutela’ del cristianesimo, di spiegare tutto mediante i propri ‘lumi’, col rifiuto di ogni ausilio della Rivelazione).

La concezione della realtà marxista-leninista ha – com’è noto – la pretesa di essere una rigorosa “scienza della società”, le cui previsioni si verificheranno “con la fatalità che presiede ai fenomeni della natura”; la riepiloghiamo qui nei suoi tratti essenziali, perché ciò che è accaduto in Russia riuscirebbe incomprensibile a chi non la conosca.

Secondo i marxisti-leninisti esiste soltanto la materia; anche l’uomo è solo materia; tutto ciò che sembra superare la materia (ad esempio le realizzazioni dell’intelletto umano nell’ordine della filosofia, dell’arte, della politica, e in ogni altro ordine) altro non sono che ‘sovrastrutture’ della materia, cioè una sorta di emanazione della stessa. Così stando le cose, ciò che ha totalmente determinato la coscienza e la natura dell’uomo (ossia il suo modo di sentire e di essere) nelle società delle diverse epoche, è stata la produzione materiale delle società stesse, insieme al “congegno sociale che necessariamente ne deriva” (‘materialismo storico’). Nella nostra epoca – o della produzione capitalista, che richiede mezzi di produzione sempre più costosi – solo un’esigua minoranza può disporre ditali mezzi; mediante i quali si appropria in misura crescente del frutto del lavoro eseguito dalle masse salariate (teoria del ‘plusvalore’).

Si è arrivati così ad un rapporto sociale di produzione basato sullo sfruttamento di classe, in cui si sono venuti a formare due gruppi inconciliabilmente antagonisti: da una parte la classe sfruttatrice capita-lista, sempre più ricca e sempre più esigua, e dall’altra le classi sfruttate proletarie, sempre più numerose e sempre più depauperate.

Quando tale processo giunge a maturazione (ossia diventa del tutto intollerabile) entra inevitabilmente in gioco la ‘dialettica’ del procedere storico individuata da Hegel: in questo caso ‘l’affermazione’ si configura nell’attuale fase di sfruttamento capitalista; ‘la negazione’ nella rivoluzione con cui le classi proletarie si appropriano dei mezzi produttivi; e ‘la sintesi’ (o ‘negazione della negazione’) sarà data da una società nuova senza più sfruttamento e senza più classi perché la proprietà collettiva dei mezzi di produzione li renderà per sempre impossibili: sparirà così anche l’antagonismo che ne deriva).

Nella nuova società la produzione potrà espandersi senza più ostacoli, e ogni membro avrà a disposizione beni materiali in misura crescente; il che porterà i suoi membri (per la legge della ‘trasformazione della quantità in qualità’) (1) a un cambiamento qualitativo della loro coscienza e della loro natura: verrà in conclusione a formarsi una ‘società di uomini nuovi’, libera dalle tare che affliggono le società attuali.

É superfluo dire che non sono state le astrazioni sopra riferite a far presa sugli attivisti appena alfabetizzati e sulle masse della Russia della prima metà del secolo, determinandole alla lotta e ai più duri sacrifici, ma la promessa che esse contengono di una sorta di paradiso in terra, di un riscatto definitivo dell’uomo. Che non era più il riscatto portato da Cristo, di cui parlavano i pop nelle prediche, ma, per così dire, il suo contrario: un riscatto cioè dell’uomo operato dall’uomo, che prendeva il posto di quello divino, e al quale bisognava pervenire attraverso l’esasperazione della lotta di classe, ossia in ultima analisi attraverso l’odio (2).

Lo stesso Marx – malgrado l’insistenza sulla ‘scientificità’ delle proprie teorie – allorché i comunardi di Parigi effettuarono nel 1871 la loro sollevazione, suscitando in lui enorme interesse (e una quantità di spunti per deduzioni ‘scientifiche’) aveva sintetizzata la loro azione con le parole: “Quei rivoluzionari stanno dando l’assalto al cielo”; che Lenin puntualmente riporta nel suo testo programmatico Stato e rivoluzione (3). È in questo senso appunto che anche i rivoluzionari russi, capi e masse gregarie, intendevano la propria azione.

Secondo i testi del marxismo-leninismo si perviene alla società nuova attraverso due tempi o fasi. Alla prima (o fase inferiore, o primo gradino del comunismo) è dato il nome di società socialista; da questa si svilupperà in seguito la società comunista vera e propria. Ovviamente il tempo per arrivare a quest’ultima non è predeterminato: Lenin prevedeva comunque che in URSS si sarebbe arrivati al comunismo entro il 1930, certo entro il 1940 (4).

Le cinque condizioni della società socialista
Quali sono le ‘condizioni’ per cui una società può essere ‘scientificamente’ definita socialista? Sono: uno stipendio da operaio a tutti i suoi membri, dal capo del governo al più modesto manovale; l’abolizione della burocrazia; l’abolizione della polizia; l’abolizione dell’esercito; uno stato “in via di estinzione e tale che non possa non estinguersi” (ossia uno stato sempre più devitalizzato e avviato a scomparire). (5) Tali cinque condizioni sono inderogabili: se in una data società ne manca anche una sola, questa non può essere definita socialista.

Circa le suddette condizioni Lenin, richiamandosi a Marx, è nei suoi testi molto esplicito, e lo è particolarmente in Stato e rivoluzione, opera scritta nell’agosto-settembre ’17 (cioè alla vigilia della rivoluzione) che rivestì poi un’importanza pratica fondamentale, in quanto venne a costituire una sorta di guida all’azione, non solo per lui ma anche per i suoi successori, i quali vi si richiamano con frequenza.

Se dunque quelle che abbiamo sopra elencate sono le ‘condizioni’ della società, ‘i mezzi’ che il marxismo-leninismo indica per ottenerle, sono: ‘il rovesciamento rivoluzionario dei rapporti sociali di produzione’ (cioè un’azione rivoluzionaria che trasferisca gli sfruttatori nella condizione di sfruttati dei loro antichi salariati); la ‘repressione’ dei suddetti ex sfruttatori; infine uno sviluppo massaie della produzione dei beni materiali (e, come condizione per arrivare a questa, uno sviluppo massaie dell’istruzione, specie tecnica).

Stragi non previste
Va qui precisato che dalla teoria non era previsto Io sterminio degli ex sfruttatori, i quali anzi, dopo un congruo periodo di ‘repressione’ (qualcosa di paragonabile al martellamento atomico con cui oggi si trasformano in laboratorio i metalli vili in oro) sarebbero stati recuperati alla società socialista (6). La repressione proletaria – spiega Lenin, sempre richiamandosi a Marx – sarebbe costata “molto meno sangue… molto meno cara all’umanità” delle normali repressioni borghesi (7); appunto per questo alla società proletaria non sarebbe occorso quel normale strumento di repressione che è la polizia. In sostanza, scomparso il capitalismo, era alla fine previsto il recupero mediante un salto di qualità di ogni materia-uomo: anche dell’ex sfruttatore.

Dopo la presa del potere con la rivoluzione del 1917, Lenin e i comunisti russi (o bolscevichi) misero in opera ‘i mezzi’ sopra elencati con un’energia e su una scala obiettivamente enormi: sia quanto alla diffusione della cultura (per cominciare lottando in un modo mai visto prima nella storia contro l’analfabetismo), sia quanto allo sviluppo della produzione materiale (si è proceduto a un’industrializzazione sempre maggiore), sia infine quanto alla repressione delle classi ex sfruttatrici. Non possiamo, in questa che vuol essere una sintesi delle linee essenziali, descrivere punto per punto l’accaduto: ci basterà dire che le tre considerate più propriamente sfruttatrici, e cioè nobiltà, la borghesia e il clero, vennero represse a un punto tale da riuscire in pratica sterminate, soprattutto le prime due. Ciò accadde negli anni successivi, caratterizzati da una disperata guerre classi votate alla ‘repressione – pur già prostrate dalla guerra contro i tedeschi – cercarono in tutti i modi di difendersi): quegli anni – affermò Lenin nel 1921, in un congresso – furono per il popolo russo “ditali calamità, dì tali sacrifici, di tale aggravamento d’ogni miseria, quali mai vi furono nel mondo” (8); egli ignorava allora che non meno incommensurabili tragedie e sterminati dolori sarebbero sopraggiunti subito.

Eliminate, a prezzo di tante sofferenze per tutti, le classi considerate sfruttatrici, non era comparsa infatti nella società sovietica nemmeno una delle condizioni del socialismo. Perciò, mentre veniva proseguito lo sviluppo della produzione materiale, si procedette alla repressione di quegli strati popolari che avevano cominciato a opporre resistenza, dimostrando così – secondo i comunisti – d’essere tuttora influenzati dallo spirito borghese (di essere ‘piccolo-borghesi’). Già si era dovuto procedere all’estirpazione dei ‘socialrivoluzionari di sinistra’ che, dopo essere stati fedeli alleati dei bolscevichi durante la rivoluzione e nelle vicende immediatamente successive (9), si erano loro ribellati, attentando tra l’altro alla vita dello stesso Lenin; si proseguì con la repressione dello strato affine degli anarchici, e di quello senza confronto più numeroso dei menscevichi (analoghi ai nostri socialdemocratici) (10), la cui repressione durò a lungo. In mezzo a tanti nuovi orrori i comunisti si mantenevano fiduciosi: seguitavano a cantare nel loro inno che si trattava della loro “ultima e decisiva battaglia” (11).

Durante questi anni il popolo russo fece alcuni disperati tentativi per sottrarsi alla camicia di forza impostagli dalla ‘scienza’ marxista: particolarmente significativa fu la ribellione dei marinai di Kronstadt del marzo 1921, con la quale gli stessi uomini che, sollevandosi, avevano dato inizio alla rivoluzione dell’ottobre ’17, tentarono di rovesciare il potere comunista (12). Stavolta vennero “massacrati come anatre nello stagno” dall’armata rossa di Trotsky, ma fu evidente che l’armata rossa non poteva essere abolita. Che non si poteva cioè procedere ancora a quell’abolizione dell’esercito che, come si è detto, è una delle condizioni inderogabili della società socialista.

Neppure comparvero – una volta portate a termine queste nuove apocalittiche repressioni – le altre condizioni del socialismo. Si discusse a lungo (e gli echi delle discussioni ci sono pervenuti in verbali di riunioni a diversi livelli) sul perché di questo fatto. Cos’era che seguitava a produrre nella società sovietica l’egoismo, il parassitismo, la corruzione, i furti, le ambizioni e quant’altro impediva di adottare lo stipendio da operaio per tutti, di abolire la polizia e la burocrazia?

Stalin decreta la fine dei kulaki
Di ceti tuttora mercantili nella società sovietica ne rimaneva uno solo: quello dei contadini piccoli proprietari (corrispondenti grosso modo ai nostri ‘coltivatori diretti’), e in particolare lo strato dei più abbienti tra essi, lo strato dei kulaki: con le mogli e i figli – includendovi i cosiddetti subkulaki – quindici milioni di persone. Su questa infelice gente cominciarono ad appuntarsi gli occhi dei comunisti teorizzanti: costoro – si diceva nei dibattiti – commerciavano il loro grano e gli altri prodotti, e cercavano perciò, com’è inevitabile, di ricavarne quanto più utile possibile; non potevano fare a meno d’essere egoisti, desiderosi di guadagno (13): ecco chi seguitava a produrre corruzione nella società, chi le impediva di rinnovarsi. Lenin però – ormai vicino a morire – e altri capi responsabili (Bukharin, Rosà) non consentirono che si andasse oltre: era già stata versata una quantità spaventosa di sangue: questo nuovo eccidio (ogni repressione si trasformava per forza di cose in eccidio, dato che i ‘repressi’ non volevano saperne di emendarsi) (14), sarebbe riuscito, unitariamente, il maggiore di tutti. Perciò Lenin aveva ammonito di non reprimere i kulaki, e teorizzato che – con la loro piena alfabetizzazione, e con l’immissione nelle campagne russe di almeno centomila trattori (15) – quei piccoli proprietari si sarebbero convertiti da sé al socialismo, avrebbero cioè conferito spontaneamente i propri campicelli, gli attrezzi, e gli animali domestici alle erigende fattorie collettive (o colcozi). Finché egli visse non permise che i comunisti si avventassero su di loro (16).

Morto Lenin nel ’24, Stalin e gli altri procedettero per anni con energia sulla strada da lui indicata: mandarono letteralmente a scuola tutti i contadini (che fu un’impresa enorme), e immisero nelle campagne ben più dei centomila trattori prescritti. Ma non per questo i contadini mostravano l’intenzione di conferire la loro terra ai colcozi: era evidente che non ci pensavano nemmeno. Allora, dal 1929 al ’32, Stalin e i comunisti ‘repressero’ con fredda determinazione i kulaki e i subkulaki, deportandoli a morire quanti erano – con le mogli e i figli, come s’è detto, quindici milioni di esseri umani – nelle tundre gelate della Russia europea e nelle zone disabitate della Siberia. A questa deportazione, e alla mancata messa a coltura di molti campi, fece seguito una terribile carestia (anni 1932 e ’33) che comportò altri sei milioni di morti, essi pure quasi tutti contadini, perché malgrado le spaventose difficoltà, i viveri non vennero fatti mancare nelle zone urbane e industriali dove era in corso la costruzione del socialismo. Questa carestia nelle campagne (la prima “totalmente artificiale” della storia, come venne osservato) provocò folli orrori, tra cui innumerevoli casi di cannibalismo. Si è calcolato poi che, se non la fame, almeno i morti di fame si sarebbero potuti evitare: sarebbe bastato sospendere le esportazioni di cereali dall’URSS (17) che procuravano una parte della valuta estera necessaria all’industrializzazione: ma ciò avrebbe comportato una stasi nella costruzione del socialismo: perciò le esportazioni vennero, con tragico fanatismo, continuate. (I meno fanatici fra i comunisti cominciarono tuttavia, in questo periodo, a ricredersi. Così la giovane moglie di Stalin, Nadia Allyluieva – che per partecipare alla costruzione del socialismo si era laureata in ingegneria – terrificata dalle notizie che arrivavano dalle campagne, perse la fede e, dopo una tragica discussione col marito, si suicidò.)

Il capitalismo di stato
Dopo questo incredibile annientamento di ventun milioni di esseri umani del tutto indifesi, effettuato nel breve giro di tre anni, (18) e dopo che tutti gli altri contadini erano stati costretti a collettivizzare le loro proprietà, non rimaneva più nella società sovietica alcun ceto che non fosse proletario. La produzione dell’industria s’era accresciuta (abbiamo visto durante la carestia a quale prezzo): ciononostante seguitava a non comparire neppure una delle condizioni della società socialista.

Non c’era modo di parificare gli stipendi e di dare a ciascuno lo stipendio da operaio, perché ad esempio gli ingegneri – e gli stessi nuovi operai qualificati, formati dai comunisti – per tale stipendio si rifiutavano (di fatto, anche se non apertamente) di collaborare (19). E come abolire la polizia se dovunque seguitavano a esser presenti ladri di ogni tipo, rapinatori, ecc.? Come abolire la burocrazia e alternare ogni cittadino a turno nelle funzioni pubbliche, se troppi seguitavano ad essere bramosi di potere, e chi il potere l’aveva, non intendeva cederlo, anzi vi si attaccava con tutte le sue forze? (non fosse altro perché gli dava una certa sicurezza). Circa l’impossibilità di abolire l’esercito, vi si è già accennato (essa diventerà ancora più evidente dopo la comparsa dì altri stati ‘socialisti’, come vedremo in seguito). Quanto allo stato, lungi dall’avviarsi all’estinzione, esso era diventato in URSS più vitale che mai, e aveva anzi straordinariamente accresciute le proprie attribuzioni economiche da quando il fallimento del collettivismo (20) aveva costretto Lenin a introdurre – molto suo malgrado all’inizio – quell'”elemento non socialista” che è il capitalismo di stato (21), sul quale si reggeva ormai l’economia sovietica.

Socialismo per decreto
A questo punto Stalin – sì direbbe con disperazione – dichiarò ufficialmente costruito il socialismo (nuova costituzione del ’36) e iniziata la costruzione del comunismo. Se qualcuno obiettava, ci rimetteva la testa; e se la storia (la realtà) non coincideva con le previsioni della ‘scienza’ marxista, venivano cambiati i testi di storia; vennero in effetti cambiati parecchie volte.

Stalin sapeva però bene che il socialismo non era stato costruito affatto: reintrodusse quindi contemporaneamente – e sviluppò al massimo – alcune forme di repressione già attuate da Lenin su frange proletarie corrotte, e cioè l’epurazione (22) (che divenne una sorta di setacciatura periodica, a turno, di tutti senza eccezione gli strati proletari). Introdusse inoltre la ‘rieducazione mediante il lavoro’ (forzato), allargando a dismisura la rete dei lager creata da Lenin per la rieducazione dei nemici di classe (si andò così formando lo sterminato ‘arcipelago Gulag’ descritto poi con tanta efficacia da Solgenitsin: alla morte di Stalin, nel ’53’ vi erano rinchiusi 15 milioni di proletari: la mortalità vi era elevatissima, ben pochi ne uscivano vivi) (23). Introdusse infine, Stalin, un indottrinamento quotidiano obbligatorio (almeno un’ora al giorno per ogni cittadino lavoratore) durante il quale ciascuno era sottoposto alla più spietata critica da parte degli altri, e doveva egli stesso autocriticarsi spietatamente: fu questa una sorta di tentativo generalizzato per costringere tutti senza eccezione i membri della società a spogliarsi della loro vecchia natura corrotta ed egoista.

Di queste tre forme di repressione quella che toccava più direttamente i membri del partito e in genere i detentori del potere era senza dubbio l’epurazione, la quale giorno dopo giorno, con le sue metodiche fucilazioni, così come setacciava gli altri strati, ‘purificava’ imparzialmente a turno (con o senza processi) anche gli strati dell’apparato comunista. Si pensi per esempio che nell’anno 1937 furono fucilati ben 400.000 ‘comunisti fedeli’ (24). E non soltanto dei livelli inferiori: infatti delle 31 persone che fecero parte dal 1919 al 1938 dei politburo di Lenin e di Stalin, 19 complessivamente vennero fucilate, 2 si suicidarono, 4 morirono di morte naturale, solo 6 (Crusciov, Mikojan, Molotov, Kaganovic, Voroscilov e Andreev) sopravvissero a Stalin (25). Siccome il numero delle vittime cresceva incessantemente, Stalin arrivò a teorizzare che quanto più in una società socialista ci si avvicina alla costruzione del comunismo, tanto più la resistenza dei nemici interni aumenta: di qui la necessità per i comunisti di essere sempre più implacabili (26). Fu senza dubbio per spezzare questa spirale del terrore, che stringeva ormai alla gola giorno e notte anche gli uomini al vertice del partito (27), che nel 1956 Crusciov e gli altri capi interruppero di fatto – anche se non dichiaratamente – la costruzione del comunismo.

Non abbiamo finora un computo esatto delle perdite umane che questa folle impresa ha comportato: Solgenitsin riferisce che, secondo i calcoli del professore di statistica Kurganov, dovrebbero aggirarsi intorno a 66 milioni (28). Nei suoi scritti più recenti egli parla abitualmente di 60 milioni di vittime (29), quasi tutte inermi. Anche gli altri dissidenti sovietici parlano in genere di 60 milioni. Si tratta – obiettivamente – del più grande massacro perpetrato nell’intero corso della storia fino al 1956. (In seguito ecatombi di dimensioni ancora maggiori vennero perpetrate in Cina anche là nel vano tentativo di costruire la società comunista) (30).

La produzione materiale in URSS – divenuta la terza potenza industriale del mondo – si è fatta intanto ingente. Questo i comunisti russi hanno potuto ottenere; come è stato loro possibile inviare e far tornare navi spaziali dalla luna (31). Ma non hanno potuto costruire il comunismo, e neppure quel suo gradino inferiore che è il socialismo, in quanto coi loro mezzi materialistici e procedimenti dialettici non hanno potuto cambiare la coscienza e la natura dell’uomo. In pratica, per eliminare il male dalla società, essi si trovavano costretti ad eliminare l’uomo stesso dalla società. Sperimentando così che il male – contrariamente a quanto essi ritenevano – non sta in rapporti sociali di produzione errati, e insomma dove che sia fuori dell’uomo, ma sta dentro di lui, nel suo intimo, precisamente come il Vangelo insegna.

In realtà – anche se non lo ammetteranno mai – i comunisti hanno, sul piano storico, fatta un’enorme scoperta (a parere dell’estensore dì queste note, la più importante del nostro secolo), e si tratta di una riscoperta: la riscoperta del peccato originale; il quale obiettivamente tara e corrompe, oggi come ieri, la natura umana. È in questa tara che i comunisti hanno dato di capo, né più né meno; è il peccato originale che ha impedito loro di reintrodurre l’uomo nel paradiso terrestre.

Macerie fisiche e morali
Come si è detto, la lotta durata quarant’anni sotto Lenin e sotto Stalin per costruire il comunismo, è stata improvvisamente interrotta da Crusciov (sospensione delle uccisioni e deportazioni – rilascio di 14 milioni di deportati – denuncia dei crimini di Stalin nel 1956 al XX Congresso). La sospensione della lotta è proseguita anche sotto i successori di Crusciov. Nel frattempo tuttavia i comunisti russi e del mondo intero non hanno mai proceduto a un serio esame critico del passato e degli immensi massacri perpetrati. I nuovi capi sovietici, dopo aver consentita qualche indagine – relativa soprattutto alle stragi dei comunisti fedeli’ – si sono limitati ad attribuire tali stragi al ‘culto della personalità di Stalin’ (che è un controsenso: che vantaggio poteva mai venire al suo ‘culto’, da un simile sterminio di uomini a lui fedeli, che lo sostenevano, lo esaltavano, e che, come si continua a ripetere, “mai avevano pensato a tradirlo?”). Anche le già poche e circoscritte indagini sul passato, comunque, dal 1965 in poi non vengono più consentite in URSS (32).

Dove la repressione, e l’impiego della violenza quale ‘levatrice della nuova società’, sono effettivamente cessate per volontà insindacabile dei capi (e potrebbero perciò, allo stesso modo, un giorno riprendere) (33), lì si continuano intanto a fare gli stessi, identici discorsi d’una volta: si continuano a studiare gli stessi immutabili testi teorici, dei quali si ha cura di non cambiare una sola virgola (se mai si procede ancora, ogni tanto, a cambiare i testi dì storia); si ripetono incessantemente gli enunciati ‘scientifici’ di Marx e Lenin, così clamorosamente smentiti dalla realtà; si continua inoltre – seguendo in questo Stalin – a dare per già costruita la società socialista, e in “fase di avanzata costruzione” quella comunista. Tutti i cittadini però confrontano ciò che vien loro ufficialmente detto – e i giovani ciò che sono costretti ogni giorno a studiare – con la realtà, e non credono ormai più in nulla.

Le testimonianze al riguardo sembrano concordi. Così il prof. Jurij Malcev, già docente all’università di Mosca e ora profugo in Italia, scrive: “A volte qualcuno mi chiede se in Russia ci siano dei marxisti-leninisti convinti. Sinceramente debbo rispondere che non ce ne sono, non ne ho mai conosciuti… Anche ad alto livello – ed ho frequentato persone altolocate per anni – non si trova un solo che, al dì fuori della retorica dei discorsi ufficiali, in un momento di conversazione privata tiri fuori la terminologia marxista o le analisi marxiste. Si vergognano in privato di quello che devono sostenere in pubblico” (34).

La perdita della fede negli ideali marxisti-leninisti si è andata generalizzando al punto che il regime, per sostenersi, è stato costretto ad aumentare sempre più i privilegi della cosiddetta ‘nomenklatura’ (o nuova classe privilegiata, formata dai dirigenti, burocrati, ‘quadri’ del partito, intellettuali reggi-coda, ecc.) cui viene riservato un trattamento che il comune cittadino non potrebbe mai sognarsi, quanto a stipendi, a superficie e qualità delle abitazioni, dacie in campagna, possibilità di studio per i figli, vacanze, ospedali, ristoranti riservati, e persino negozi: ci sono infatti merci scelte e negozi per i soli privilegiati, nei quali la gente comune non ha il diritto di porre piede (35). Queste sono oggi le ‘condizioni’ della società ‘socialista’ in URSS.

Quanto al popolo nel suo insieme si può dire che – venuti meno a suo tempo, sotto l’azione comunista, gli ideali cristiani in non pochi russi, e venuti ora meno anche gli ideali marxisti-leninisti che li avevano in qualche modo surrogati – esso è privo di fermenti e sta gradualmente sprofondando in preda a una sorta di incredibile abbrutimento. Dice il già citato Malcev: “Chi è credente prega, chi non è credente si ubriaca… Il popolo reagisce con la corsa al consumismo, con l’individualismo personale e di casta…”. C’è “non collaborazione, menefreghismo…”. In agricoltura in particolare “metà dei raccolti vanno persi, sia sul campo, sia nel momento del magazzinaggio” (36).

“Negli ultimi tempi” scrive un altro testimone che mantiene l’anonimato “l’ubriachezza è diventata un flagello nazionale… ” e riferisce parecchi esempi: tra l’altro ha constatato che in una cittadina dell’Ucraina la domenica almeno l’80% dei giovani si ubriaca (37).

Secondo J. Malcev, se un simile abbrutimento continuerà, esso finirà col costituire, per il popolo russo, la maggiore fra tutte le perdite causategli dal marxismo (38).

Note
(1) Un esempio di ‘trasformazione della quantità in qualità’ Stalin lo riprende da Engels: se si diminuisce progressivamente la temperatura dell’acqua, questa ad un tratto si trasforma in ghiaccio; cambia cioè la sua ‘qualità’ da liquido a solido. Afferma Stalin: “Il passaggio dai cambiamenti quantitativi, lenti, ai bruschi e rapidi cambiamenti qualitativi, è una legge dello sviluppo”. (G. Stalin, Questioni del leninismo, ed. in lingua italiana, Mosca 1948, pp. 649 e 652). Per tale legge, poiché gli esseri umani, secondo il marxismo, non sono altro che grumi di materia, una crescente assunzione di materia da parte loro, porterà a un tratto a un salto di qualità della loro coscienza e della loro natura (l’una e l’altra semplici attributi della materia). Appunto così si arriverà alla ‘società di uomini nuovi’, libera da tutte le tare delle società precedenti. Con buona pace dei moralisti comunisti nostrani, che criticano il ‘consumismo’ occidentale, in ultima analisi è dunque proprio il consumismo che, secondo la ‘scienza’ sociale marxista, dovrebbe portare al riscatto definitivo dell’uomo e della società.

(2) Lenin, Opere scelte, ed. in lingua italiana, Mosca 1948, vol. Il, p. 594: “Il nobile odio proletario… Quest’odio… è in verità il principio d’ogni saggezza”.

(3) Lenin, op. cit., p. 151.

(4) Così ne I compiti delle unioni della gioventù, dell’ottobre 1920, Lenin afferma: “La generazione che ha oggi 15 anni vedrà la società comunista e la edificherà essa stessa… (Essa) tra 10 o 20 anni vivrà nella società comunista” (Op. cit, pp. 651 e 652).

(5) Per il marxismo infatti Io stato – con il suo apparato burocratico e poliziesco – non è altro che il principale strumento di cui le classi sfruttatrici si servono per tenere in soggezione le tanto più numerose classi sfruttate (si vedano, tra le molte citazioni possibili, quelle di Marx e di Engels che Lenin fa nell’op. cit. a p. 132). Scomparso lo sfruttamento di classe, lo stato non ha più ragione d’esistere, addirittura non ha più senso.

(6) Indicativo al riguardo è il trattamento riservato al generale cosacco Krasnov, che nel novembre 1917 aveva marciato su Pietrogrado per rovesciare i bolscevichi, ed era finito loro prigioniero. In quei giorni – malgrado le proteste di Lenin – era stata dal rivoluzionari vittoriosi abolita la pena di morte (per la prima volta nella storia della Russia). Le guardie rosse si fecero promettere solennemente da Krasnov che non avrebbe più combattuto contro di loro, e lo lasciarono andare libero: in sostanza perché potesse anch’egli partecipare alla costruzione della società nuova, la cui prospettiva esaltava allora tanti cuori. Una volta libero, Krasnov riprese la lotta. (In I. Deutscher, Stalin, Longanesi, Milano, p. 233).

(7) Lenin, op. cit, pp. 187, 188.

(8) Lenin, op. cit, p. 665.

(9) Il partito ‘socialrivoluzionario di sinistra’ (grosso modo equivalente all’italiano PSIUP) era stato alleato del partito comunista bolscevico nelle prime elezioni dopo la rivoluzione, quelle per la Costituente, del novembre 1917 (furono le uniche elezioni libere o quasi nella millenaria storia della Russia). I due partiti insieme riportarono un po’ meno del 25% dei voti (la maggioranza assoluta essendo andata ai menscevichi). Lenin e i bolscevichi sciolsero perciò, dopo qualche riunione, la Costituente.

(10) La lotta contro i socialdemocratici – esportata all’estero con tutto fl suo intransigente corredo di teorizzazioni – fu poi una delle principali cause della paralisi delle forze popolari in Germania al tempo dell’ascesa di Hitler.

(11) Lenin, op. cit., p. 664: “Noi tutti cantiamo nel nostro inno che stiamo combattendo la nostra ultima e decisiva battaglia; ecco una delle più diffuse e usate parole d’ordine che ripetiamo in tutti i modi”.

(12) Le ragioni di questi marinai sono dettagliatamente esposte nel volume Le Izvestija di Kronstadt, tr. it. Jaca Book, Milano 1970.

(13) Si legge ad esempio in Lenin: “I contadini rinnovano sempre la borghesia…”. Op. cit., p. 619. Ma le citazioni possibili sarebbero molte.

(14) Dice Lenin: “Signori capitalisti, la colpa è vostra. Se voi non aveste opposto una resistenza così furiosa, così insensata, impudente e disperata… la rivoluzione avrebbe preso forme più pacifiche”. Op. cit., p. 443.

(15) Lenin, op. cit., pp. 442 e 445.

(16) Si ha motivo dì dubitare che Lenin, alla fine della sua vita nutrisse ancora fiducia nelle dottrine proprie e di Marx. Leggiamo nei suoi scritti (nov. ’22) frasi come: “La pratica è più importante di tutte le discussioni teoriche del mondo” (op. cit., p. 792); o: “fi fuori dubbio che noi abbiamo fatto e facciamo un numero enorme di sciocchezze. Nessuno può giudicarlo meglio di me: nessuno può rendersene conto più chiaramente” (p. 795). Così passim nelle sue opere dal gennaio 1923 in poi, fino all’affermazione: “Siamo obbligati a riconoscere che tutte le nostre opinioni sul socialismo hanno subito un cambiamento radicale” (p. 811). É senza dubbio per questo che Churchill ha scritto: “La peggiore disgrazia [per il popolo russo] era stata la nascita di Lenin… In seguito quella più grave fu la morte di lui” (in A. Moorehead, La rivoluzione russa, Mondadori, Milano, p. 361).

(17) Nel 1932 e nel 1933, mentre i contadini mangiavano per la fame i loro morti, e i bambini morivano come mosche, vennero esportati dalla Russia sui 17-18 milioni di quintali di cereali per anno (soprattutto grano), nonché burro e altri prodotti alimentari (Robert Conquest, Il grande terrore, Mondadori, Milano 1970, p. 43).

(18) Rimandiamo il lettore per gli altri particolari al nostro precedente studio Lo sterminio dei contadini kulaki.

(19) La lamentela è al riguardo costante nei testi sovietici (si veda ad es. ne L’estremismo, malattia infantile del comunismo di Lenin). Per procedere nell’industrializzazione Stalin fu costretto a puntare sempre più sugli ‘incentivi materiali’ alzando minaccioso la voce contro chi insisteva per il “livellamento sinistroide dei salari” (6. Stalin, op. cit., per es. a p. 408). La disparità fra gli stipendi in URSS superò e si mantiene oggi non inferiore a quella che si riscontra in Occidente. Sono di conseguenza molto accentuate anche le disparità nel tenore di vita dei diversi gruppi sociali (una buona descrizione, relativa all’epoca di Crusciov è ne I mondo sovietico di Luca Pietromarchi, che fu ambasciatore d’Italia a Mosca in quel periodo: Bompiani, Milano, pp. 350 e Ss.; il testo più dettagliato a nostra conoscenza è però La nomenklatura di Michael Voslenski, ed. Belfond, Parigi 1980).

(20) Oggi in URSS solo i colcozi restano collettivizzati – cioè proprietà collettiva dei lavoratori e anch’essi, beninteso, soltanto di nome. Per il caos provocato dalla collettivizzazione generale tentata dopo la rivoluzione, si vedano ad es. i suoi effetti sulle ferrovie in I. Deutscher, op. cit. p. 255 e passim. Per la crudeltà del sistema di retribuzione dei lavoratori costretti nel regime collettivo, si veda in particolare Lev Timofeev, op. cit. A p. 75 si legge: ” Ancora nel 1963 c’erano nel paese migliaia di colcoz in cui il contadino prendeva per un anno di lavoro 6-7 pud di grano ” (ossia poco più d’un quintale – n.d.r.) ” e 10-15 rubli. ” Afferma Pasternak (ivi, a p. 20): ” All’inizio degli anni Trenta… andai a fare un giro [nelle campagne] con l’idea di scriverci un libro. Non ci sono parole per descrivere quello che vidi. Era una sventura così inumana, così inimmaginabile, una calamità così terribile da diventare un’astrazione: così com’era, la mente non poteva accettarla. Mi sentii male. Per un anno intero non potei dormire “.

(21) Circa la chiara ammissione di Lenin che il capitalismo di stato non è “un elemento socialista” si veda in Cinque anni di rivoluzione russa, op. cii., p. 789. E a p. 791: “Se non ci fossimo dimostrati in grado di eseguire la ritirata [sul capitalismo di stato] saremmo stati minacciati dalla rovina”.

(22) Fu introdotta la prima volta nel 1921 per “ripulire periodicamente i ranghi del partito dagli arrivisti… dai comunisti che si lasciavano sedurre dal fascino della vita borghese… dai commissari ai quali il potere aveva fatto girare la testa”, come riferisce I. Deutscher (op. cit, p. 300).

(23) Può essere interessante il confronto con le condanne alla deportazione nell’epoca zarista (katorga): durante tale epoca il massimo annuale di deportazioni fu di 32.000 nel 1912; il numero più elevato di deportati contemporaneamente nei campi zaristi fu di 163.949 (da R. Conquest)

(24) Roy A. Medvedev, Lo stalinismo, Mondadori, Milano 1972, p. XXIV. Negli anni 1936, 1937 e 1938 in Russia furono uccisi (inclusi i non iscritti al partito) complessivamente tre milioni di persone, per lo più mediante fucilazione (R. Conquest, op. cit., p. 512). – Sullo stato d’animo dei comunisti arrestati e sottoposti a processo fa particolarmente luce l’importante opera Vita e destino di Vasilij Grossman, ed. Jaca Book, Milano 1984, p. 886.

(25) R. Conquest (in op. cit., pp. 740 e 741) ne dà l’elenco. Si veda inoltre nel Rapporto Crusciov al XX Congresso (ed. CID, Roma 1956, p. 25): “Sui 139 membri e candidati del Comitato centrale del partito, eletti durante il XVII Congresso, 98, e cioè il 70%, furono arrestati e fucilati”.

(26) Nel suo Rapporto al XX Congresso (pp. 28 e 29) Crusciov affermò che con tale enunciato Stalin “tentava di giustificare teoricamente il terrore poliziesco di massa… Stalin affermava che la storia e Lenin stesso gli avevano insegnato ciò”. Crusciov nega che nei testi di Lenin si trovi un tale insegnamento. In realtà vi si può trovare effettivamente. Per es. nel 1920, rivolgendosi ai comunisti occidentali, Lenin li avvertiva: “La vostra vittoria – cioè l’abbattimento della borghesia e la conquista del potere politico da parte del proletariato – creerà quelle stesse difficoltà in misura ancora maggiore, incommensurabilmente maggiore” (op. cit,, p. 619).

(27) Si veda nel Rapporto Crusciov, a p. 74: Stalin nei suoi ultimi tempi “aveva progettato di liquidare tutti i vecchi membri del Praesidium. Egli diceva spesso che i membri del Praesidium dovevano essere sostituiti da nuovi compagni” (dove Praesidium – nome che fu introdotto poi da Crusciov – sta per Politburò). Quando uno di questi personaggi si trovava nella casa di Stalin, non sapeva mai se ne sarebbe uscito ancora suo amico, oppure per essere portato in prigione. (p. 72)

(28) A. Solgenitsin, Arcipelago Gulag, Mondadori, Milano, Vol. lI, p. 12.

(29) A. Solgenitsin, in La quercia e il vitello, Mondadori, Milano 1975, per esempio a p. 649. Si vedano inoltre i riepiloghi accurati, anche se ormai un po’ invecchiati (risalgono al 1968) di Robert Conquest, op. cit. p. 735). In occasione del censimento effettuato nel 1959 risultò che in Unione Sovietica gli uomini di cinque classi (dal 1900 al 1904: cioè tra le meno implicate nelle due guerre) erano ridotti alla metà delle donne (il 33,4% contro il 66,6%). Dunque circa una metà dei maschi di queste cinque classi era stata uccisa, o fatta morire nei lager. Poco meno tragica la situazione delle classi a queste successive (Conquest, p. 736).

(30) Per i dati del massacro in Cina si veda il relativo studio nel presente volume.

(31) Ciò sebbene la tecnologia sovietica si mantenga sensibilmente inferiore a quella americana, a causa soprattutto della sistematica deportazione o incarcerazione, durante molti anni, degli specialisti migliori: un buon quadro è ne Il bluff spaziale sovietico di Leonid Vladimirov, ed. Paoline, Roma 1976. Per il lavoro degli ‘scienziati forzati’ chiusi in appositi, abbastanza confortevoli lager, rimane comunque insuperato Il primo cerchio di A. Solgenhsin.

(32) Vedasi la dichiarazione di Lidia Ciukovskaìa in A. Solgeaitsin, La quercia e il vitello, p. 648.

(33) E senza dubbio per timore che un nuovo capo riprenda con energia l’impossibile edificazione del comunismo, che le conventicole dominanti il vertice del partito in Unione Sovietica hanno, negli ultimi anni, evitato di nominare Segretario generale e Capo del governo un uomo dotato d’iniziativa, o semplicemente sano e nel pieno delle forze; hanno puntualmente preferito sceglierlo di personalità sbiadita, anziano, e quando possibile semi-infermo.

(34) In Russia 76, ed. PIME, Milano, pp. 22 e 28. – Anche in Lev Timofeev, op. cit., leggiamo a p. 129: “L’idea ha fatto il suo tempo; nella misura in cui cessa di godere di qualsiasi credito presso il popolo, viene tradita anche dallo strato dirigente. Ormai non difendono più l’idea, ma solo il potere personale e i privilegi)”.

(35) Un quadro molto dettagliato è in M. Voslenski, op. cit.

(36) In Russia 76, pp. 23 e 30.

(37) Ivi, p. 17. – In Lev Timofeev, op. cit., a p. 28 si legge: “Di recente” (cioè verso il 1980 – n.d.r.) “la stampa sovietica ha pubblicato per la prima volta dopo molti anni una cifra che è indicativa del consumo di alcol nelle campagne: la famiglia contadina spende il 30 per cento del suo reddito complessivo nelle bevande alcoliche. La cifra ha colpito persino gli esperti”, anche perché non tiene conto della vodka prodotta in casa, il cui consumo è tanto diffuso nei villaggi”. Alle pp. 124 e 125 c’è un’impressionante analisi delle devastazioni prodotte dall’alcolismo nel mondo contadino. Su tutta la popolazione dell’URSS del resto l’effetto dell’alcolismo è talmente devastante che (caso unico in una società industrializzata) la durata media della vita, anziché aumentare, è da alcuni anni in diminuzione.

(38) Nella rivista Russia cristiana (n. 2, marzo 1976, p. 39) leggiamo, in un samizdat che diffonde un appello del prete ortodosso Vasilij Romaniuk, detenuto in un lager della Mordovia, la definizione dell’URSS odierna come il paese che produce “l’uomo-bestia”.

(luglio 1976, Studi Cattolici)