Il mio inferno rosso

Eugenio Corti ritratto da Roberto GandolaDalla terribile campagna di Russia alla “peste del cattocomunismo”. I ricordi di Eugenio Corti, scrittore con la vocazione alla verità.

Gruppetti di universitari vanno regolarmente a trovarlo. Si inerpicano per le viuzze tortuose che salgono al centro di Besana Brianza e suonano al campanello della grande villa. Edificata agli inizi del secolo scorso, era in origine sede di una manifattura tessile, una della mille che hanno fatto la ricchezza di quest’angolo di Lombardia; ma la posizione era troppo invitante, negli anni Trenta è stata riadattata ad abitazione. Viene ad aprire la moglie, la signora Vanda.

Se l’aria è limpida, come in certe giornate vitree d’inverno, dalla balconata che delimita il grande parco si vedono i colli Briantei digradare verso il piano, poi laggiù il profilo del Duomo, a chiudere l’orizzonte tutto l’arco dei monti dalle Prealpi lariane fino agli Appennini.

Lui, Eugenio Corti, aspetta in casa. Da quando gli hanno tolto un tratto della vena safena per rattoppargli il cuore le gambe fanno i capricci, cammina a fatica, a passi brevissimi, strascicati. Ma orgogliosamente, senza bastone, lui che a piedi ha fatto migliaia di chilometri avanti e indietro per la steppa russa, riuscendo a riportare indietro la pelle sua – “un miracolo della Madonna”, ci dirà più avanti – e di molti soldati che gli erano affidati.

Che cosa vengono a cercare questi figli del Duemila a casa di Eugenio Corti, classe 1921, sottotenente di artiglieria della divisione Pasubio durante la campagna di Russia, poi autore di libri tanto venduti quanto sistematicamente ignorati dalla critica ufficiale (in testa a tutti Il cavallo rosso, giunto ormai alla ventiquattresima edizione, poi I più non ritornano – diciassette edizioni -, per finire con Il Medioevo e altri racconti, fresco di stampa, l’occasione che ci ha condotto a incontrarlo)?

“Vengono a incontrare un testimone del Novecento. La domanda che prima o poi tutti mi fanno è: come ha fatto lei, che ha visto tutti gli orrori del Novecento, a non perdere la fede? Ma è proprio perché ho visto, ho toccato con mano le bestialità delle ideologie che pretendono di sbarazzarsi di Dio, rispondo sempre, che la mia fede si è confermata, rafforzata”.

La fede cristiana, il piccolo Eugenio l’aveva succhiata col latte: famiglia di solida tradizione cattolica, dieci tra fratelli e sorelle; uno, gesuita, è ancora missionario in Ciad, un altro è stato a lungo medico in Uganda. Le scuole, naturalmente, dai preti, i domenicani del collegio San Carlo, a Milano. Disciplina dura, rigorosa. E’ qui che Eugenio scopre la sua vocazione, la scrittura: “E’ stato in prima ginnasio, leggendo Omero. ‘Io voglio fare come lui’, mi dissi allora. Perché Omero trasforma tutto ciò di cui parla in bellezza. E da allora sono sempre stato fedele a quella intuizione.

La letteratura non sembra proprio una professione affidabile, meglio qualcosa di più solido: nel settembre del 1940 – con lo scoppio della guerra, il 10 di giugno, non ha neppure fatto gli esami di maturità  – il giovano si iscrive a Giurisprudenza, sempre a Milano, Università Cattolica. Qui avviene l’episodio destinato a segnarne la vita: “Lei capirà, dopo anni di disciplina feroce, l’università era una boccata di aria fresca, di libertà. frequentavo poco i corsi, preferivo bighellonare peri  chiostri. LA mia meta preferita era la biblioteca. Studiavo Legge, ma il mio sogno era comunque diventare scrittore; così leggevo tutto quel che mi sembrava utile allo scopo. Mi ero fatto una cultura sulle teorie estetiche e letterarie, e lì avevo incontrato Jacques Maritain; poi avevo scoperto che era considerato l’intellettuale cattolico più importante dell’epoca, avevo divorato tutto. E infine mi erano capitati per le mani alcuni fascicoli di Esprit.

Il nome di Emmanuel Mounier, allora, non mi diceva nulla; ma sapevo che era amico e allievo di Maritain, così decisi di leggerli. Trovai scritto che non era vero che il comunismo russo era la peste, che a dipingerlo così erano i fascisti e le ‘demoplutocrazia’, che i comunisti in realtà erano più cristiani di noi. Io rimasi interdetto; mi sembrava strano, ma se lo diceva un allievo di Maritain, mi dissi, bisognava andare a vedere”.

L’occasione arriva subito. Nel febbraio del ’41, Corti riceve la cartolina precetto, fa domanda per la scuola ufficiali. Al tempo vige l’usanza per cui gli allievi che si classificano nel primo decimo della graduatoria hanno diritto di scegliere la destinazione. Naturalmente tutti ne approfittavano per imboscarsi; lui no: arriva tra i primi, chiede un reggimento di stanza in Russia. Nel giugno del ’42 arriva sul Don.

“Fu l’esperienza definitiva della mia vita”. Nelle lunghe settimane in cui i combattimenti languono cerca di parlare il più possibile con i locali. Quel che sente lo lascia senza fiato: scopre che non c’è famiglia che non abbia almeno un membro ucciso dal regime o deportato in Siberia, ascolta i racconti degli anni tremendi della carestia in Ucraina e del suo compagno terribile, il cannibalismo.

“Quella vicenda mi fece toccare con mano la verità di quel che aveva scritto Sant’Agostino millecinquecento anni prima: o si costruisce la città di Dio, o inevitabilmente si costruisce la città del Principe di questo mondo. E decisi che dovevo raccontare quel che avevo visto”. Prima però bisogna riportare a casa la pelle. Il 16 dicembre 1942 infatti comincia la controffensiva russa, il 19 i soldati italiani sono accerchiati. Per ventotto giorni infuria la battaglia. A un certo punto il sottotenente Corti sente un leggero colpo sul collo. Quando può togliersi il passamontagna, vede dietro la nuca i fori di entrata e di uscita di un proiettile.

“E’ stata la Madonna a deviare il colpo, come farà poi con Giovanni Paolo II. La Madonna che ha ascoltato le preghiere di mia mamma”.

Il 16 gennaio l’accerchiamento è rotto, inizia la lunga marcia verso l’Italia. Qui Corti dopo l’8 settembre passerà a piedi il fronte e andrà ad arruolarsi nell’esercito del Sud che risale la penisola al fianco degli alleati. Finita la guerra, riprende gli studi e comincia a scrivere; nel 1947 arrivano la laurea e il primo romanzo, I più non ritornano, il resoconto dei giorni drammatici della sacca del Don.

“Ogni più possente pagina fra Steinbeck e Hemingway parrà uno svolazzo calligrafico, un arabesco documentario, a paragone di questo romanzo-poema-dramma-storia” scrive Mario Apollonio “che rimarrà memorabile”.

Quindi si mette all’opera sul racconto della guerra combattuta sul fronte italiano: nel 1951 esce I poveri Cristi. Di nuovo Apollonio saluta con entusiasmo un testo in cui la dimensione religiosa fa tutt’uno con la durezza della vita quotidiana: “Per la prima volta da secoli; fuor dagli agguati dello spiritualismo sentimental, la Fede è una fede di cose”. Corti in realtà non è soddisfatto del lavoro compiuto, delle “riflessioni mal assorbite nel racconto, e anzi qua e là addirittura accatastate” (una profonda revisione, I soldati del re, uscirà nel 1994); ma “convinto che fosse vicina a scoppiare la rivoluzione comunista, io intendevo combattere contro i comunisti”. E qui comincia la sua sventura.

Già prima della guerra Corti aveva avuto occasione di incontrare più volte Giuseppe Lazzati, d’una dozzina d’anni più anziano, allora dirigente dell’Azione cattolica; nel dopoguerra, favorita dalla comune esperienza militare, tra i due si era venuta formando un’autentica cordialità. “Quante volte ha avuto la bontà di intrattenermi nel suo studio, pur con tutto quel che aveva da fare, e mi raccontava i suoi progetti per un rinnovamento della cultura  e della politica cristiane in Italia, tutti ispirati dalla lezione di Maritain e Mounier. Io, che dei frutti nefasti di quell’insegnamento avevo fatto esperienza, provavo a dissuaderlo; ma invano”.

Così, mentre Lazzati apre a sinistra, Corti approfondisce invece lo studio del comunismo reale, nei cui confronti imbastisce con l’opera teatrale Processo e morte di Stalin (1962) un durissimo atto d’accusa. Che estende anche ai sostenitori occidentali. “Mi misi a combattere Maritain e Mounier con tutte le mie forze. Avevo capito dove si annidava il loro errore. Maritain in origine era stato un socialista rivoluzionario ateo. Poi Dio gli ha toccato il cuore, ma lui è rimasto accecato dal fatto che nel bagaglio culturale dei marxisti e dei laici c’erano molte “verità impazzite”, per usare l’espressione di Chesterton; tanto che ebbe a definirsi un minatore che cercava valori e virtù cristiani nascosti nel mondo laico, e finì per convincersi che i suoi vecchi compagni – che era ansioso di conquistare alla sua nuova fede – fossero in sostanza già cristiani, e che si potesse costruire una ‘nuova cristianità’ con comunisti e laici.

Quel che Maritain, accecato appunto dall’affetto per i suoi amici, non vedeva, è che una verità, un valore o una virtù cristiani, messi nel bagaglio degli altri, li rendono ancora più avversi al cristianesimo. Le faccio un esempio, preso dal libro di Rudolf Hoss, “Comandante ad Auschwitz”: non era facile, spiega Hoss, mantenere gli altissimi ritmi previsti per lo sterminio degli ebrei; fu possibile farlo solo grazie al grande ‘spirito di abnegazione’ delle SS addette ai crematori, che rinunciarono alle licenze e si sobbarcarono turni pesantissimi. Capisce la follia? Lo spirito di abnegazione è certamente un valore cristiano, ma al servizio di una causa sbagliata la rende solo più micidiale. Certo, Maritain alla fine si accorse dell’errore, e nel Contadino della Garonna arrivò a dire che i cristiani erano stati supidi a credere a quello che lui aveva detto. Intanto però il danno era fatto, aveva gettato il seme della peste del cattocomunismo: di lì sarebbero fioriti i vari Dossetti, Lazzati, La Pira, Fanfani…”.

Nel corso degli anni Sessanta, grazie all’amicizia col direttore don Carlo Chiavazza – anche lui era stato nella sacca del Don, tenente cappellano degli alpini -, Corti riesce a pubblicare sull’Italia alcuni racconti brevi sulla vicenda russa; ma quando nel 1968 il giornale si fonde con il bolognese L’Avvenire d’Italia per dar vita, auspici i vescovi, ad Avvenire, la nuova direzione ritiene di non aver più bisogno della sua collaborazione. Nello stesso anno Lazzati diventa rettore della Cattolica, i lazzatiani occupano le posizioni chiave, perfino un gigante come Apollonio finisce emarginato, figurarsi il povero Corti… Almeno i rapporti personali, tuttavia, per qualche tempo rimangono cordiali.

La rottura definitiva arriva  col referendum sul divorzio.
“Gabrio Lombardi, che era stato capitano durante la guerra, era stato incaricato di dar vita al Comitato per il sì, e mi chiese di far da vicepresidente per la Lombardia. Io obbedii, lasciando anche la stesura de Il cavallo rosso, e, dato che il presidente era un industriale molto impegnato, mi ritrovai di fatto a fare tutto. E il mio avversario più accanito divenne proprio Lazzati, che pure era stato mio amico. Lui impedì a chiunque di parlare in Cattolica contro il divorzio, perfino al professor Sergio Cotta, che pure nell’ateneo di Largo Gemelli, aveva insegnato.

Io ero riuscito a farmi ascoltare dappertutto, anche in circostanze drammatiche, come – ricordo come fosse ora – a Genova, di fronte al Palazzo Ducale, con la piazza gremita da un lato di cattolici antidivorzisti e dall’altro di facinorosi urlanti, con in mezzo un cordone di polizia che sembrava sempre sul punto di cedere. Poco dopo fui invitato in Cattolica, da un gruppo di studenti di Comunione e Liberazione. Avevo già preparato il discorso, lo stesso di Genova, con in più un richiamo al giuramento antimodernista. Era il giuramento introdotto da Pio Xi nel 1910 contro il modernismo, e la Cattolica fino ai primi anni Sessanta lo richiedeva a tutti i laureandi. Io e Lazzati l’avevamo dunque pronunciato, e io volevo dire che lui e i suoi l’avevano tradito. Ma poi prevalse lo spirito di carità, il richiamo di Gesù all’unità dei suoi, e all’ultimo preferii rinunciare all’intervento. Comunque da allora non ci siamo più parlati”.

Non solo; da allora di Corti in Cattolica è stato proibito parlare; gli studenti che hanno chiesto una tesi su di lui si sono sempre sentiti opporre un netto rifiuto. “In altre università, molti si sono laureati studiando la mia opera; ma in Cattolica sono ancora al bando. Per la verità con l’attuale rettore, Vincenzo Ornaghi, i rapporti sono ottimi; ma nella facoltà di Lettere dettano ancora legge i lazzatiani. Però forse qualcosa sta cambiando: poche settimane fa è venuta a trovarmi una studentessa del professor Elli, che ha chiesto e ottenuto una tesi sulla mia opera”.

Qualcosa si sta muovendo, dopo quarant’anni, anche sul fronte di Avvenire: “Anche con loro ebbi un duro scambio di opinioni, a metà degli anni Novanta, quando scrissi chiedendo perché parlassero sempre così bene del comunismo; mi risposero per telefono in modo molto brusco, e il silenzio è rimasto assoluto. Però adesso in occasione dell’uscita del Medioevo mi hanno dedicato un articolo lusinghiero. Chissà…”

Lontano dai circuiti ufficiali, sostenuto pressoché solo dal passaparola di lettori appassionati, Eugenio Corti ha sempre proseguito la sua opera di testimone degli avvenimenti del secolo. Nel 1983 esce Il cavallo rosso, l’opus magnum a cui si è dedicato a tempo pieno per oltre dieci anni, epopea che attraversa tutte le vicende italiane dal 1940 al ’74, che gli conquista manipoli di affezionati lettori anche in diversi altri paesi (è appena uscita la traduzione in serbo), e che recentemente è uscito dal limbo, allegato a Famiglia Cristiana (“merito di Ferruccio Parazzoli”, dice lui). Quindi cerca di fare da controcanto ai luoghi comuni della cultura dominante.

Quando nel 1992 col centenario del viaggio di Colombo si additano gli europei come colpevoli di tutti i mali del mondo, scrive La terra dell’indio sulle reducciones dei gesuiti in Paraguay, di fronte alla diffusione del mito dei mari del Sud che vive felice, libero dalle regole della civiltà occidentale, racconta ne L’isola del paradiso la vera vicenda degli ammutinati del Bounty, un gruppo di uomini che hanno cercato di costruire una civiltà nuova, “naturale”, e hanno finito per scannarsi tutti uno a uno.

Infine, sulla questione delle radici cristiane, Catone l’antico, storia di un uomo in cui la fierezza romana si apre all’attesa di una speranza nuova. Nel mezzo, la celebre espressione angosciata di Paolo VI – “Il fumo di Satana è entrato nel tempio di Dio… Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della chiesa. Invece è venuta una giornata di nuvole, di tempesta, di buio” – gli suggerisce il titolo per la raccolta di saggi – Il fumo nel tempio, appunto – in cui affonda la lama nei mali della chiesa di oggi. E adesso, finalmente, Il Medioevo e altri racconti: “Ho parlato di tutto, ma non ero mai riuscito a dedicarmi all’epoca che più che più mi ha sempre affascinato. Ora posso chiudere in pace”.

Fuori si fa scuro, là verso le montagne il tramonto è una lama arancione. La conversazione divaga. “Lì sedeva sempre don Carlo” dice indicando un grande divano. “Don Carlo” è don Gnocchi, un altro che in Russia era andato per scelta, per star dietro ai suoi studenti arruolati. Aveva promesso di celebrare il suo matrimonio, e ha mantenuto l’impegno, anche se ormai la sua opera aveva raggiunto proporzioni colossali. Di recente Corti è stato a Bormio, per l’intitolazione a don Carlo  di una via: nel raccontarli gli si illuminano gli occhi.

Fuori fa scuro, è tempo di tirare le conclusioni. “Io sono stato chiamato dalla Provvidenza a scrivere. Io non ho avuto la vocazione alla carità. Ce l’ha mio fratello che è frate in Ciad; ce l’aveva l’altro che ha fondato un ospedale in Uganda, e la moglie gli è morta per l’Aids contratto da uno dei mille feriti che operava in continuazione, dieci ore al giorno. Però nel Vangelo la verità è fondamentale come la carità. Io ho avuto la vocazione alla verità: posso lavorare per aiutare gli uomini a non staccarsi mai dalla verità. Guardi, me l’ha scritto anche don Giussani quando ho compiuto 80 anni: “Chiedo alla Madonna di conservare la sua vita nella baldanza che la caratterizza, fiero difensore della verità che nella fede ragionevolmente tramandata e da lei personalmente rivissuta e resa attuale trova la sua apologia più affascinante, specialmente in questi tempi drammatici”. Ecco, per questo sono andato avanti”.

(Roberto Persico, 28/03/09, Il Foglio)