La recensione di Mario Apollonio
La tragedia (perché tale è di sua natura: con tutte le implicazioni giudiziali, rituali e sacrali che il nome illustre e temibile comporta) sembrerà ricollegarsi alla rinnovata polemica politica contro Stalin, contro la sua potenza e prepotenza, contro i suoi metodi di governo, contro lui stesso, diremmo, titanico e tirannico nel suo sopravvivere come nel suo vivere; ma un breve rapporto delle date di ideazione e di stesura basterebbe a dimostrare che l’autore ha pensato prima e da solo quel che poi è stato motivo e pretesto: è della verità precorrere e andar più lontano.
Ed Eugenio Corti si è rivelato a sé e agli altri scrittore con un primo romanzo I più non ritornano, sulla campagna di Russia, dove elementi autobiografici, intelligenza storica ed intuizione poetico-profetica animavano un forte affresco tragico: dove era in ombra ed operatore di strage il protagonista che ora apertamente si confessa e va alla sua morte; e poi ha detto, quasi in controcanto, in un secondo romanzo, I poveri cristi, l’odissea umile e pur nello strazio allegra della campagna d’Italia. E’ raro che nella poetica di un autore d’oggi si noti altrettanta coerenza e un guardar più a fondo per andare più lontano . Ripresentandosi adesso trageda, accetta di svelare l’essenza della storia dentro l’essenzialità della parola.
Realtà, storia, sostanze di cose sperate sono i gradus ad Parnassum della poetica di Eugenio Corti. Che fra gli autori italiani del secondo dopoguerra si rivelasse finalmente chi con intatta e ingenua potenza potesse riassumere l’ultima e la penultima esperienza della nostra cultura, s’era fin troppo atteso. Che ciò avvenga al teatro, è segno che il nostro pubblico sa farsi coro al dramma del coro del nostro tempo. La sua non è stata la solitudine attonita della disperazione moderna, senza fede né amore.
Anche accetta la condizione primordiale della tragedia: d’esser giudizio in atto, processo: il processo dei congiurati a Stalin diventa il processo di Stalin al sistema; e la sua cattura diventa la cattura dell’uomo in una condizione umana che non ha volontà di fuggire alla prigione. Tutto è detto con ardita tensione drammatica e con pietà severa. Il tiranno è reo, sì, ma vittima; e in uno scambio audace e pietoso di parti, gli accusatori si preparano ad investirsi della sua terribile eredità di colpe, e i martiri della sua tirannide avvolgono nella loro compassione il colpevole.
Il male è scrutato con chiarezza implacabile e redento con pietà infinita: il fatto religioso (e senza religione nessuna tragedia è possibile) consente al di là del giudizio, l’amore. Processo e morte di Stalin vale anche come risoluto e fiducioso esorcisma contro la tentazione, ogni giorno più chiara ai nostri occhi, di farne segnacolo in vessillo per una nuova strage, a prolungare oltre la morte il suo orrendo potere: spezza la catena dell’odio, esautora nel tiranno la forza del male, ci riconsegna un uomo.