Eugenio Corti, una vita nel segno della speranza

Paola ScaglioneParole scolpite. I giorni e l’opera di Eugenio Corti (Ares, Milano 2002) è l’accurata biografia che Paola Scaglione ha dedicato all’autore del Cavallo rosso. Il lavoro è il frutto di lunghe conversazioni e di un attento studio delle carte e della pubblicistica conservata presso casa Corti. A oggi, resta uno strumento fondamentale per addentrarsi nel cantiere dello scrittore a Besana in Brianza. Quella ricerca, però, segnò l’inizio di un’amicizia e di un profondo dialogo che si è protratto nel tempo. Abbiamo chiesto a Paola Scaglione di ricostruire l’atmosfera e la portata di quei giorni.

“A ogni uomo il Creatore ha assegnato un compito: è fondamentale per ciascuno individuare quello a cui è chiamato. Io sono stato messo al mondo per fare lo scrittore e devo fare lo scrittore. La realizzazione di questo compito è la pienezza di me”.

Eugenio Corti non aveva dubbi: narratore per vocazione, combattente per assunzione delle proprie responsabilità, ha concepito la propria esistenza come un dono destinato a essere condiviso perché potesse dare frutto. I lettori se ne sono accorti e si sono sentiti a loro volta chiamati a mobilitarsi, a farsi testimoni della bellezza e della verità che vivono nelle sue parole. Le migliaia di persone che hanno voluto incontrare Corti o che gli hanno scritto dopo aver letto le sue opere riferiscono spesso di essersi date da fare per diffonderle tra amici e conoscenti, perché in esse hanno trovato un aiuto a comprendere la realtà e a vivere, ragioni per credere e per sperare.

Questa singolarità del modo in cui si sono diffusi i suoi libri è all’origine non solo del loro duraturo successo, ma anche di un rapporto unico tra l’autore e il suo pubblico: se certo le pagine di Corti entrano nell’esistenza di chi le incontra, anche i lettori hanno avuto una parte determinante nella vita dello scrittore. Corti rifletteva spesso su quel fiorire di incontri che ha portato nella sua casa tante persone desiderose di conoscerlo e di imparare dalla sua sapientiae vitae, generando talvolta profonde amicizie. Era stupito dal fatto che ognuna delle persone incontrate grazie ai suoi libri offrisse un’intuizione unica: “Non c’è una lettera che sia uguale a quell’altra: ciascuno dà un suo apporto. Questo mi ha prospettato più volte quello che dovrebbe essere la nostra realtà nel mondo dell’aldilà. Incontrando i lettori mi si configura sempre più chiaramente il fatto che ogni essere umano riflette Dio secondo la propria angolatura, diversa da quella di ogni altro: questo rende la realtà armoniosa”.

Un patto con l’angelo custode di Vanda
Come ogni evento della sua vita, anche questa percezione non si fermava alla superficie. I piedi sulla terra, le mani operose e lo sguardo rivolto all’eternità, Eugenio Corti leggeva in profondità ciò che gli era accaduto: “Questo dà l’idea dell’opportunità della presenza degli altri. Sartre scrive che l’inferno sono gli altri… No, gli altri sono il mondo in cui viviamo. Quello che mi interessa di più nel rapporto con le persone è la differenza tra gli uni e gli altri, che compone la nostra realtà e ci mostra un barlume del paradiso in cui speriamo di andare”.

Ci era accaduto più volte di parlare del gran numero di persone che lo ringraziavano perché le sue opere avevano rivolto la loro vita al bene. Lui si fermava pensoso, confidando la preoccupazione di impiegare il tempo in modo pieno. Avevo obiettato: era evidente che quanto gli accadeva fosse il successo, il frutto di tanti anni di lavoro. Eugenio, però, era andato oltre, raccontando di un patto stretto con l’angelo custode della moglie perché collaborasse con il suo: “Ogni giorno prego che, quando ciascuno di noi arriverà alla fine della sua vita, questo consorzio si concreti in una sinergia di tutti gli angeli dei parenti, degli amici e dei lettori, Li prego che si diano da fare perché tutti aiutino ciascuno nel passaggio da questa vita a quella definitiva. Il mio sogno sarebbe che si formasse, ogni volta che uno dei lettori o degli amici arriva a quel momento, un coro di lode a Dio per la realtà attraverso cui ci ha fatto passare”.

Il carisma di Eugenio Corti doveva molto al suo essere consapevole dello sguardo di Dio sul suo cammino. Certo la figura alta, il portamento elegante, gli occhi luminosi color “cielo-di-Lombardia”, capaci di intensa commozione, di sguardi infuocati e insieme carichi di misericordia avevano un fascino innegabile su chi lo incontrava, ma il suo segreto è un cuore spalancato sull’assoluto.

L’esperienza della guerra lo aveva segnato in modo indelebile: ancora negli ultimi giorni raccontava delle notti agitate in cui gli pareva di ritrovarsi nell’inferno della ritirata sul fronte russo, con i piedi congelati e la gola dolorante per il continuo gridare in mezzo alla neve, nel tentativo di strappare i suoi uomini alla morte. “Ogni sera prego Domineddio di non mandarmi quei sogni”, riferiva con occhi trasparenti da fanciullo.

Soprattutto, però, la vicenda della guerra lo aveva educato a ricondursi sempre all’essenziale: nasceva da quell’esperienza di male assoluto il suo parlare senza sotterfugi, il giudizio limpidissimo e il cuore grande, lo sguardo di una fede profonda che non conosce la paura, la gratitudine per ogni istante di vita.

La sua grandezza era il suo essere appassionato e, al tempo stesso, in pace, perché se è vero che il male non cessa di assalire l’uomo, è ancor più vero che il bene ha già trionfato. Lo dichiarava semplicemente, Corti, perché per lui l’importante non era fissarsi sul male, ma caricarsi fino in fondo della propria fatica e fare la propria parte nella buona battaglia.

Per questo non si è mai atteggiato a personaggio, non si è mai inchinato alla critica commerciale, non si è mai costruito l’aura dello scrittore impegnato: si sentiva uno strumento e sapeva di avere tra le mani un talento di cui avrebbe dovuto rendere conto. Non gli interessavano i riconoscimenti destinati a dissolversi con il tempo: “Il mio dovere è scrivere: al resto penserà qualcun altro”, ripeteva sereno.

Com’è nata un’amicizia privilegiata
Una simile umanità gli ha conquistato la riconoscenza e l’affetto dei lettori, che prendono parte al suo stesso impegno. E’ accaduto così anche a me: all’inizio una tra i tanti che andavano a fargli visita per gustare con gli occhi sgranati i racconti che proseguivano oltre le sue pagine. E’ iniziata lì, nelle lunghe conversazioni nel salotto di casa Corti, l’avventura di un’amicizia privilegiata. Giornalista giovane e un po’ incosciente, avevo preso appuntamento per una breve intervista sul suo lavoro, ma le domande erano troppe e crescevano di numero con il fiorire delle sue parole: ne sarebbero nati dei libri sulla sua storia e su quella dei suoi personaggi, poi infiniti articoli, saggi, conferenze e persino uno spettacolo sulla sua vita e sulla sua opera.

A quella prima intervista sarebbero seguite moltissime ore di lavoro insieme; dieci anni dopo, conversando con l’amico dell’età matura Massimo Caprara, Corti ricordava ridente e compiaciuto l’inizio di quella vicenda che mi avrebbe portata a occuparmi in modo approfondito e continuativo della sua opera: ho sempre avuto la coscienza di essere oggetto della predilezione di un uomo grande, la gioia della sua approvazione, il conforto del suo sostegno paterno. Nei pomeriggi di lavoro trascorsi nel suo studio a domandare, ad ascoltare, a leggere la sua corrispondenza e gli articoli su di lui, imponeva, con mio grande imbarazzo, che prendessi posto alla sua scrivania. Disponevo fogli e registratore accanto alla lunga fila delle sue matite appuntite e al portapenne di legno, mentre lui faceva spazio al mio lavoro tra i mucchi delle sue carte.

Certo che quelle occasioni fossero disposte dalla Provvidenza, dedicava senza risparmiarsi tempo ed energie a rispondere a ogni mia domanda, accogliendo l’imprevisto di un’amicizia che si sarebbe radicata oltre ogni nostra previsione. Non ha mai eluso alcuna questione, disponibile a raccontarsi in una confidenza sorprendente. Nel lavoro comune abbiamo immagazzinato ore di verità intensissima e di buonumore. Gli accadeva di sorridere della mia precisione, che talvolta gli pareva sconfinasse in una pignoleria accademica, e me lo faceva notare con garbo; quando poi, confidando nella mia organizzazione, mi telefonava per sapere in quale dei suoi libri avesse scritto una certa frase o una riflessione o in quale recensione fosse emerso un determinato giudizio, era il primo a riderne di gusto.

Regalandomi una nuova edizione del Cavallo rosso, aveva scritto nella dedica: “A Paola, formidabile collaboratrice, ringraziando lei e il Signore che l’ha fatta incontrare con questo romanzo”. Nonostante la lunga sintonia, mi aveva spiazzato ancora una volta. E’ accaduto in ogni nostro incontro: ogni occasione regalava una sorpresa. Nelle passeggiate domenicali tra il verde della sua Brianza, ci accadeva spesso di condividere il progetto di una conferenza o di uno scritto; una volta, mentre discutevamo di un intoppo intervenuto in una pubblicazione, lui aveva ascoltato attento le mie riflessioni sulla questione, poi aveva ribattuto: “Quello che dici è tutto perfettamente razionale, ma… quello che è accaduto è l’intervento del male. Tu hai lavorato per il bene e il diavolo ti intralcia”. Ne parlava con l’accento di chi prende atto della realtà, con lo stesso tono con cui poco prima mi aveva fatto notare compiaciuto il profilo delle Prealpi lombarde. Poi, scorgendo un filo di perplessità sul mio volto, aveva confidato con indicibile paternità e senza un cenno di malinconia: “Sapessi quante volte ho visto accadere cose di questo genere… L’unica preoccupazione che ho è quella di non crearti sofferenza buttandoti nella lotta contro il male”.

“Affronto la morte come da soldato, in allegria”
Intorno c’era il mese di maggio, con il profumo dell’erba appena tagliata nell’aria già calda. Avevamo proseguito in silenzio, mentre il sentiero scorreva sotto i nostri passi. Dopo un po’ avevo ripreso: “Non pensi che, se avessi voluto evitare tutto questo, sarei rimasta a casa a fare la massaia e a preparare le marmellate?”. Lui era scoppiato in una risata: “No, non è nella tua struttura spirituale…”.

Ogni tanto si interrompeva pensoso e anticipava una questione che gli stava a cuore: “Adesso ti dico questa cosa, così poi la scrivi nel prossimo libro…”. Con il tempo la sintonia si era fatta sempre più essenziale. Da quando il suo cuore aveva iniziato a fare i capricci, era impensierito dal passare del tempo e da indicazioni “per dopo, quando io sarò passato di là e tu ci sarai ancora”. Una volta ero scattata: “No, per favore, questo discorso su di te non lo voglio sentire”. Sul volto paziente era passato un sorriso commosso: “Invece devi. E poi io la morte la affronto come un soldato, il più possibile con allegria”. Sono rimasti, quei discorsi, il pegno di un accordo tra noi.

Una delle ultime volte in cui ci siamo incontrati confidava: “Il corpo si sta consumando, ma io mi affido a Dio e continuo a sperare”. Quella speranza è la cifra costitutiva della sua vita, combattuta a testa alta, nella certezza della misericordia di Dio e della sua presenza tra gli uomini. Eugenio Corti consegna un compito a cui chi lo ha incontrato non può – ne vuole – sottrarsi.

(Paola Scaglione, luglio/agosto 2014, Studi Cattolici)