La recensione di Mario Apollonio
Al suo libro secondo, “I poveri cristi” (edit. Garzanti), Eugenio Corti non è che rinneghi il primo, “I più non ritornano”: quel libro ha afferrato anche lui, l’autore, come tanti e tanti lettori: il più bel libro, penso, sulla guerra di Russia, e probabilmente il più bel romanzo scritto in italiano nel dopoguerra (se questa ed altre genericità di statistica letteraria hanno un peso).
Nel più dei casi, dopo un libro simile, l’autore si piega su se stesso, fa maniera del suo dire, si obbedisce e declina; ma dovendo raccontar della campagna d’Italia, il soldato del corpo di liberazione, che all’Armistizio è sceso a piedi lungo la Penisola verso il Mezzogiorno, e poi l’ha risalita tutta quanta fino alle Alpi, capisce che la direzione è diversa. “Il cammino era verso l’alto” dice; e sono parole che solo una immensa forza ingenua sottrae alla taccia di retorica; e del resto la realtà nuova egli la guarda con quegli stessi “occhi chiari da pazzo” che avevano guardato quell’altra.
Anche dice: “La narrazione della mia vicenda, cioè il libro del nostro tempo”: perché si tratta proprio di saper conoscere nella storia di uno la sorte di ognuno. (Forse che d’altro si può far romanzo, si può fare poesia?). E infine: “Noi, ragazzi”: è gente, infatti, che per arrivare alla verità si sobbarca al peso di tutta la realtà, non già si rimpiatta, sia per paura, sia per poeticità umbratile; né fantastica, né evade. Storia di un ritorno; e per tornare a casa sua, questo Lombardo della seconda guerra (noi storici maturati fra le due guerre siamo in condizioni opportunissime per annodare delle conclusioni) sceglie il cammin lungo di ritrovare tutta la patria, quanto è lunga.
Direte allora, trattandosi di un ritorno, che questa è un’odissea, e che la storia della ritirata di Russia è un’iliade.
Ebbene, Corti di niente ha paura, che incomincia a raccontare con una preghiera:
“Donna, ponte fra noi e Dio, via dall’uomo all’Arte la quale ha sede in Dio, Maria nostra, mostrami in lui le cose che prendo a narrare, e farai la mia voce sicura come il volo dell’aquila, mentre dice le cose che io e i miei compagni vivemmo in quegli anni”.
Proprio così, come nei vecchi cantari; e lasciate pur da parte Tasso e Chateaubriand. Quell’iliade diceva di una discesa in un mondo infero, tremenda, in un mondo di cose e presenze terribilmente corpose; e quest’odissea di un salire lungo una varia avventura, in spazi che continuamente si dilatano, dove anche le immagini di orrore e di guerra, altrettanto ferme e fiere che quelle, trasalgono fra i ricordi pensosi, speranze alate, e pensieri generosi e puri come angeli armati.
Lo chiama “tempo deforme”, quello di cui racconta. E incomincia nel vivo dei fatti, “al principio del giugno 1944, in linea sopra Lanciano, in Abruzzo”, con una stilizzazione che in alcuni episodi rammenta senz’altro il raccontare dei più che non ritornano. Ma proseguendo avverti sempre meglio come la vita l’abbia ripreso. Potrebbe indulgiare in uno stile grottesco che che là era atroce, qui già respira nel riso, che è allegria e speranza: chi vorrà servirsi del libro come documento di storia, accettandone i dati astratti, le notizie immeditate, anzi che tener fede al processo della trasfigurazione poetica, ben altrimenti fattivo e operoso, e intimamente storico, avrà innanzi una messe copiosa di miserie, di dappocaggini, di viltà: povere cose (ma questa “campagna” è un’autentica vittoria). Preferisce narrare con una fiducia rapita, via via inserendo nuovi modi riflessivi e gnomici, senza perder mai la baldanza miracolosa della rievocazione.
E’ su questo modo che il lettore si fermerà più volentieri: quadri di paese e apparizioni di persone, quasi melodie colorate ed aperte sopra una materia grigia, dolci valli fra scabrose rocce. Ne viene una narrazione rapsodica, dove ciascuno può scegliere il suo, sicuro o no che sia il meglio; e Corti è narratore che possiede più di ogni altro, oggi, la virtù lirica della narrazione suggestiva. Così dell’idillio del fumo, nell’intermezzo pastorale nel parco nazionale d’Abruzzo: “Quel fumo era simile al canto d’un uccello dalle ali cenerine”: che termina col sogno di Margherita: “Ma per noi uomini c’è anche l’amore”. Così della scena della tentazione, affacciati alla finestra: “Avevo compassione di te, povero ragazzo”, dice lei, umilmente; e lui bestemmia: “E’ un Dio crudele, il nostro”.
Ma il frate cappellano “nella smorfia del Cristo appeso al legno, ritrovava quella dei fanti miserabili, supini nella neve a morire”. Allora:
“Quello è il Dio crudele verso gli uomini? – chiese beffardo l’angelo.
– Proprio ora parli – pensai.
– La questione – disse l’angelo – è che il vostro è un destino da giganti.
– A volte troppo – pensai.
– Povero ragazzo – disse l’angelo”.
e d’altri molti idilli candidi e cruenti, amari e dolci, che svariano d’innumerevoli colori lungo la storia della fiera avventura.
Sulla virtù poetica della rapsodie della campagna d’Italia, difficilmente ci sarà discordia tra i critici: li assicura il dato del buon gusto. Dubitiamo che trovi grazia, in una pubblicistica come la nostra, così conformista e cautelosa, quel suo impennarsi verso problemi enormi di storia, di politica, di morale, di dogma: anzi, lo sappiamo di sicuro: non troverà grazia.
Gli uni saranno respinti da questo o quel ritratto, troppo evidente: benché l’autore sia candidamente inteso a dire il suo a tutti: al politicante come al prete pauroso, al falso soldato come al traditore insanguinato; e benché non ami affatto generalizzare: “Forse i prototipi è meglio lasciarli perdere” dice dopo una discussione fantasiosa. Gli altri si atterranno al criterio del separare la poetica dalla parentetica, e di un libro zeppo di intrusioni violente nel campo della dottrina, un libro nuovo che canta le armi e le idee come i libri vecchi cantavano le armi e gli amori, preferiranno tacere; o che si taccia. Quel che sia della fortuna prossima, meno importa.
Qui ci occorrono due postille: la prima, che il prender parte in una giustificazione totale del mondo è sostanzialmente nella persona dell’autore, di questo autore: che assiste alla sostanza delle cose sperate dalla sua Fede con la stessa tranquilla audacia con cui guarda a un notturno o a un meriggio.
La seconda è che quest’autore cristiano getta nel raccontare una realtà di materia parenetica e apologetica cattolica con la stessa fermezza con cui un narratore positivista chiedeva e chiede che sia assicurato alla materia sua un valore di evidenza documentaria. Per la prima volta, da secoli, fuor degli agguati dello spiritualismo sentimentale, la Fede è fede di cose.