Il seguito del Bounty (appunti di diario)

L'isola del paradisoFINE 1973 – Mi arriva una telefonata da un conoscente che lavora nel campo del cinema: “Hai letto l’articolo di Abitai su Il giorno del 15 (novembre)?”. “No, non l’ho letto.”. “Ma come! Parla del tuo soggetto cinematografico L’isola del paradiso, il seguito del Bounty insomma.., quello che hai mandato anche a me l’anno scorso per farmelo conoscere.”. “Ah, sì? Strano. E come mai ne parla?”. “Proprio non sai niente? In questo momento quel soggetto lo stanno realizzando nelle Antille, a Santo Domingo, con titolo Noa Noa. Ma com’è che proprio tu non lo sai?”. Vista la mia ignoranza, mi riferisce a pezzi e bocconi il contenuto dell’articolo, e conclude: “Caro mio, ti hanno soffiato l’idea. Beh, oggi stesso ti spedisco il giornale”. Lo ringrazio. E rimango male, ovviamente.

Tiro fuori da un cassetto un foglio con i dati relativi alla mia sceneggiatura cinematografica (un lavoro di 260 cartelle fitte, al quale ho dedicato tra documentazione e stesura quasi un anno intero). Leggo: “22 febbraio 1971, ritirate dalla copisteria le prime dodici copie fotografiche”, e più sotto: “Ritirate dalla copisteria sessanta copie ciclostilate” Leggo poi i nominativi di coloro ai quali ho inviato man mano le copie: si tratta di produttori, di registi (tra cui il mio conoscente), di critici cinematografici, di autori affermati alla televisione, di funzionari preposti alla programmazione televisiva, infine di studiosi del costume. Le prime copie risultano spedite nel febbraio ‘71, le ultime meno di un mese fa, e ne rimangono ancora da spedire.

La mia Isola del paradiso è il seguito della storia del Bounty: inizia cioè là dove finiscono i due noti film hollywoodiani che – con protagonista il primo Clark Gable (1935), il secondo Marlon Brando (1962) – hanno narrato l’ammutinamento del Bounty e il ritorno degli ammutinati al paradiso terrestre di Thaiti e delle isole oceaniche. È, questo del Bounty, uno dei rarissimi episodi storici che, pur essendo accaduti in epoca moderna, hanno assunto tutte le caratteristiche del mito: non ultima quella di essere raccontati e anzi, per così dire, ricantati sempre di nuovo.

Non passa infatti si può dire anno senza che nell’àmbito anglofono (Inghilterra, Stati Uniti, e da un certo tempo anche Australia) escano nuovi articoli o libri su questa vicenda; e sono d’ogni livello, dal più infimo (dunque irrilevanti culturalmente) al più elevato: ne hanno parlato infatti, tra gli altri, anche Byron e Coleridge. Da qualche tempo sono cominciate le interpretazioni in chiave ultramoderna, psicopatologica per esempio, come quella di Madge Darby che (Londra, 1965) ha tracciato un accurato – ma non persuasivo – parallelo tra il comportamento del capo degli ammutinati Flechter Christian e il comportamento del dottor Schreher, il noto caso descritto da Freud. E stato questo interesse costante a richiamare la mia attenzione sulla vicenda storica che – una volta conosciuta nei particolari – ha preso anche me. Nella sua conclusione infatti mi è venuta incontro, con forte evidenza, la risposta della realtà al sogno che si annida in chiunque sia di forma mentis illuminista: il sogno di tanti americani medi per esempio, che in ogni epoca hanno sentita singolarmente forte l’attrattiva dei ‘mari del sud’, e della ‘vita felice allo stato di natura’, con annesso mito del ‘buon selvaggio’, ecc.

Appunto per questo nei paesi anglofoni le pubblicazioni di massa si soffermano principalmente sull’ammutinamento e sul ritorno degli ammutinati alle isole felici, tra le affascinanti isolane. Tendono invece a trascurare quella che a me sembra la cosa più importante: cioè la vera conclusione della vicenda, ossia ciò che è accaduto ai ribelli dopo il loro ritorno nel paradiso terrestre.

Erano tutti uomini e donne giovani; lasciata Tahiti per non essere disturbati dalla marina inglese, si erano insediati in una piccola isola sperduta nell’oceano, verde e disabitata, ed avevano bruciata la loro nave, disponendosi a vivere una vita di libertà totale, senza remore di alcun genere. Non avevano preoccupazioni di sussistenza, essendo l’ambiente favorevole quant’altri mai; ciononostante cominciarono abbastanza presto ad ammazzarsi tra loro: anzitutto per invidia (proprio come Caino, al tempo in cui con suo fratello aveva a disposizione il mondo intero), poi per lussuria, superbia, egoismo; finché dei maschi ne rimase in vita uno soltanto. Mostrarono così che il male accompagna l’uomo anche allo stato di natura: che non ha dunque sede fuori di lui, ma dentro di lui, come del resto il Vangelo ammonisce. Riscoprirono insomma che l’uomo è condizionato dovunque dalla propria natura tarata e corrotta.

Si trattò – tragedia a parte – di un esperimento veramente interessante: quasi una dimostrazione in vitro dell’errore da cui procede l’illuminismo, per il quale l’uomo sarebbe signore di sé stesso (il grande errore dell’epoca moderna, che sta a monte – ricordiamolo – non solo della concezione americana, ma anche, e più, di quella marxista, come pure di quella nazista). Questa compiuta, nitida vicenda storica di fine Settecento, veniva a stabilire ai miei occhi una sorta di parallelo con quell’altra – di proporzioni inconfrontabilmente maggiori – che avevo indagato anni prima: cioè col tentativo di costruire, nel corso del nostro secolo, il comunismo in Russia (anche là il paradiso in terra): tentativo fallito appunto per l’impossibilità di cambiare la coscienza e la natura dell’uomo.

Dall’esperimento russo avevo tratto il materiale per la mia tragedia su Stalin che, rimasta pressoché sconosciuta ai miei compatrioti, era stata invece recepita bene – una volta tradotta nelle loro lingue – dai russi e dai polacchi, gente che quell’esperimento l’aveva vissuto sulla propria pelle. Mentre a quell’opera avevo dato veste teatrale, a quest’altra (che intendevo rivolta soprattutto agli americani), avevo dato invece veste filmica: sia perché in sé più adatta alla materia, sia perché il linguaggio filmico è agli americani più congeniale.

INIZIO 1974 – A tutte queste cose ripensavo dopo la telefonata del mio conoscente, mentre rimanevo in attesa del giornale promesso. Che ora mi è arrivato: leggo così che un produttore e un regista dell’ambiente cinematografico romano stanno girando nella Repubblica Dominicana il film che ha lo stesso argomento della mia sceneggiatura; che tale film “al di là dell’avventura, vorrebbe contenere un messaggio politico-sociale”, il quale messaggio sembrerebbe, dal contesto, esattamente opposto al mio. E si concreterebbe in una tiritera laico-libertaria, di quelle che vengono usualmente messe avanti per assicurarsi quanta più possibile licenza d’erotismo: restando l’erotismo il vero obiettivo, sia perché corrompe la gente, sia perché fa cassetta.

Il mio conoscente aveva comunque detto bene: le somiglianze del film con la mia sceneggiatura risultano – a stare al breve articolo – impressionanti, perfino divertenti. Ecco ad esempio una piccola libertà che mi ero preso nei confronti dell’avvenimento storico: “Degli inglesi ne è rimasto in vita uno solo” riferisce l’articolo, “che cambierà il suo nome in quello di Adam: il nome del primo uomo di un mondo che spera ancora di poter cambiare…” Si tratta però di un’invenzione mia: “Da otto anni ho cambiato il mio nome: da quando ho cambiato vita” è scritto nel mio testo, “da allora mi chiamo Adam: come il primo uomo…” Nella realtà però le cose non erano andate così: quell’uomo si era dato il nome di John e il cognome piuttosto diffuso di Adams, per mascherarsi nel caso fosse approdata all’isola qualche nave inglese. Io ho deliberatamente trasformato quel cognome in nome, in quanto mi serviva a sottolineare l’episodio della sua riscoperta della Bibbia.

Leggo anche, purtroppo: “Una quindicina di ragazze dominicane scelte attraverso un concorso nazionale… circolano sul set a petto nudo, i colorati parei a velarne i fianchi” mentre “alcuni militari controllano che nessun estraneo invada il set. I dominicani, il cui reddito medio non supera le cinquantamila lire a testa, sono cattolici ferventi: il nudo, anche se porta valuta pesante… resta vietato all’occhio indigeno”. È chiaro che questa povera gente, queste ragazze attrici si prestano in sostanza per fame. Spero solo, per loro, che il film non sia troppo pesantemente pornografico: certo la materia, il ritorno alla mitica età dell’oro, si presta facilmente.

In conclusione non m’indigno, piuttosto m’immelanconisce la perdita di tempo che ne verrà alla mia opera: suppongo infatti che dopo l’uscita di quel film, per parecchi anni nessun produttore vorrà realizzare la mia sceneggiatura. Almeno per ora dunque niente contributo all’appassionato discorso anglosassone sulla vicenda del Bounty. E sì che da un certo tempo in qua, ci sono degli stranieri intelligenti che sollecitano noi italiani perché ci rifacciamo vivi in un momento in cui la cultura cristiana – allargatasi a suo tempo dall’Italia ben oltre l’Europa – sembra rischiare il collasso. Non sanno ahimé, quegli stranieri, che la produzione culturale in Italia è oggi così incredibilmente provinciale – segue cioè a tal punto le mode culturali allogene – che se qui uno produce non già adeguandosi a quelle mode, ma conservandosi nel nostro alveo culturale originario, gli altri italiani quasi non lo capiscono più.

A vent’anni di distanza torno sull’argomento. Il film Noa Noa, realizzato dai laicisti sfruttando punto per punto la mia sceneggiatura, e col rovesciamento una per una delle mie tesi, una volta uscito non ha avuto successo proprio perché – non essendo stata in precedenza realizzata quella sceneggiatura – le contro argomentazioni su cui il film era interamente costruito sono risultate del tutto campate in aria, e in pratica incomprensibili allo spettatore. Rimane il fatto – a ulteriore dimostrazione della paralisi della nostra cultura – che mentre l’opera d’impostazione cristiana non ha ancora, dopo tanto tempo, trovato chi la realizzi, il suo ‘opposto’ (oltre tutto molto scadente) è stato invece prontamente realizzato.

Potrà interessare il lettore sapere che durante i vent’anni trascorsi da allora, negli USA venne preparato intorno al 1978 (ed era molto atteso) un nuovo film sulla vicenda del Bounty, che sarebbe stato il più colossale di tutti, con regista David Lean, e produttore Dino De Laurentiis: tale film, a causa del suo costo troppo elevato), non fu poi realizzato. Ne è uscito invece nell’84 (con titolo Il Bounty, regista Roger Donaldson) uno meno grandioso, tuttavia sempre di un certo) impegno (costo 20 milioni di dollari).

(tratto da il Fumo nel tempio, 1996, Ares)