Catone, il bisbetico che vedeva lontano

Catone l'anticoFu l’uomo che appoggiò la lex Oppia contro lo sfarzo delle donne: al massimo, mezza oncia d’oro a testa, perché “il lusso porta alla rovina”.

Fece ripavimentare il foro romano con ciottoli aguzzi, così i perdigiorno avrebbero trovato scomodo passeggiarvi. Fu militare eroico, con tre cicatrici sul petto e vittorie eclatanti in Spagna e in Grecia. Combattè nella battaglia del Metauro, dove Asdrubale trovò la morte e dove iniziò la fine di Annibale. Completò tutto il cursus honorum della Repubblica sino a divenire censore nel 184, lui che era nato da un’umile famiglia plebea nel 234 a.C.

Bandì dal Senato due illustri colleghi: il primo perché aveva sterminato una città sconfitta, mancando alla parola data; il secondo perché aveva baciato la moglie sulla bocca davanti alla prole. Ripulì Roma dai rifiuti e dagli scandali morali e finanziari. Fondò la prima basilica romana, la Porzia.

Era Marco Porzio Catone, detto il Censore, uno di quei monumenti di storia romana che si ricordano ancora oggi, almeno per il ritornello testardo con il quale terminava tutte le sue orazioni: Delenda Carthago, “Cartagine deve essere distrutta”.

A riproporne con vigore la figura è Eugenio Corti, l’autore del bestseller Il Cavallo rosso – decine di edizioni in Italia e nel mondo, dall’America al Giappone – di cui esce sabato in libreria Catone l’antico (Ares, pagg. 438, euro 18). Un romanzo – ma costruito come una sceneggiatura, con note storiche a corredo – dedicato a un homo novus che si divideva tra i campi di famiglia e le campagne militari, tra la carriera politica e lo studio. Un libro che è soprattutto un grande affresco di civiltà, o meglio dello scontro tra più formae mentis: da una parte la Roma repubblicana, dall’altra Cartagine e la Grecia ellenistica.

Corti, perché Catone?
E’ una figura emblematica per il suo e per il nostro tempo. In piena epoca repubblicana impersonificò tutta la forza della più pura tradizione romana, che si fondava sul mos maiorum, il costume degli avi.

Ovvero?
La virtù virile, la fedeltà, la pietas religiosa, la grandezza d’animo. E inoltre il “dare a ciascuno il suo”. Mi spiego: i romani di allora erano un popolo praticamente ignorante , quasi privo di letterature, storia e filosofia. Tuttavia avevano uno straordinario senso della giustizia, ed è stato proprio il diritto il loro grande apporto alla civiltà umana.

E Catone rappresenta tutto questo?
Sì, un uomo tutto d’un pezzo, fino a essere persino rozzo ed eccessivo, direi anzi un cane ringhiante. Fu attaccato continuamente, ma vinse tutte le cinquanta cause che gli intentarono. Catone aveva lucidamente compreso i pericoli che correva Roma, e vi lottò contro con tutte le sue forze.

Quali pericoli?
Prima di tutto Cartagine. I cartaginesi, grandi commercianti, avevano una forma mentis tutta centrata sull’economia. Il generale sconfitto veniva crocefisso perché, come i ladri, aveva “rubato” qualcosa alla patria. Inoltre i prodotti punici erano molto meno costosi di quelli romani, perché tutta la loro economia era schiavistica, di uno schiavismo estremo basato sullo sfruttamento totale di uomini e donne. Catone capì che questo modello economico-sociale avrebbe schiacciato Roma, la cui civiltà era fondata sull’uomo libero, contadino e soldato, solo in parte supportato dagli schiavi. Per questo optò per la distruzione totale del nemico.

L’altra grande battaglia di Catone fu quella contro la cultura ellenistica, ormai alle porte di Roma. Quale pericolo vi scorgeva?
Catone odiava la corruzione dell’ellenismo, non la cultura greca tout court. Anzi, la ammirava, tanto da cercare di emularla, scrivendo la prima storia di Roma. Lottava però tenacemente contro la corruzione tipica dell’ellenismo, come per esempio l’usura e l’omosessualità. Catone pensava che la mollezza dei costumi fosse l’inizio della fine, e del resto era quanto accadeva alle civiltà che venivano assoggettate dalla Roma del diritto e della spada.

Si scontrò anche con il celebre filosofo Carneade…
Costui sosteneva che la verità non è distinguibile dall’errore, e per dimostrarlo tenne due discorsi sulla giustizia: uno pro, l’altro contro. E con entrambi convinse il pubblico di avere ragione. Catone lo fece cacciare da Roma.

Eppure anche Catone imparò il greco.
Il Censore si accorse che vi era una cultura e una tradizione di pensiero da cui Roma non poteva prescindere. Dobbiamo immaginarci una città fondamentalmente contadina e ancora piccola che, nel giro di due generazioni, diventa caput mundi. Per questo Catone studiò il greco,perché bonum est illorum litteras inspicere, non perdiscere, cioè “è bene esaminare la loro cultura, non assorbirla”, e farsene assorbire.

Catone riteneva che il teatro importato dalla Grecia fosse la porta attraverso cui si diffondeva il malcostume…
Pure il teatro contemporaneo è spesso una somma di porcherie come quello di allora. Ma la gente voleva – e in parte vuole – lo spettacolo, le oscenità, ma anche la tortura degli animali e degli uomini.

Riferendosi alla paura di uno schiavo, lei scrive che “la crudeltà è uno dei massimi piaceri per la gente”. Lo pensa anche di noi?
Oggi, in linea di massima, non c’è compiacenza per la crudeltà, perché abbiamo conosciuto il nazismo e il comunismo. Però c’è la corsa alla corruzione: morale, economica, sociale.

Altro rivale di Catone fu la famiglia degli Scipioni.
Nel modo romano, vita civile e militare erano strettamente intrecciate. Il soldato era lo stesso contadino che, terminata la fatica militare,tornava ad arare il suo campo. Ma questo sistema non resse davanti alle necessità belliche cui fu sottoposta Roma nel III-II secolo a.C., tanto che emersero militari di professione venerati dal popolo. Vi era cioè il rischio che militari vittoriosi dessero vita a dittature, come in effetti sarebbe accaduto con il passaggio dalla Repubblica all’Impero. Catone lottò contro la possibilità della dittatura fondata sulla spada – anche se gli Scipioni non l’avrebbero voluta – tanto da non inserire il nome dei generali romani nella sua storia di Roma.

Catone è un antico sorpassato o ancora attuale?
Vedo nella sua vicenda umana un modello anche per noi: la cultura dominante, quella che si sta sempre più spandendo in occidente, è piena di marcio, come quella contro cui combattè Catone. Corriamo pericoli analoghi, che minacciano la nostra cultura e la nostra civiltà. E basti pensare allo sfasciarsi della famiglia e alla nuova schiavitù prospettata dall’abuso della scienza e della tecnica. Anche la letteratura e l’arte testimoniano questo grave pericolo: quelle oggi imperanti sono piene di niente e di brutto, sono in disfacimento. Ma noi veniamo da una storia di verità e di bellezza.

(Marco Meschini, Il Giornale, 28/04/2005)