La prefazione di François Livi a Le cheval rouge
Sembra che i “casi letterari” siano necessari al buon andamento della società letteraria nel suo insieme: editori, autori, critici, media e, last but don’t least, pubblico. Perlomeno fanno parte del suo rituale. Il mondo letterario italiano non fa eccezione: ha regolarmente creato, nel corso degli ultimi decenni, i suoi casi, basti ricordarne tre dei più noti che abbiano varcato i confini della penisola.
Negli anni cinquanta il caso più stupefacente è stato certamente la pubblicazione de “Il gattopardo” (1957). E’ in assoluta solitudine che il principe Tomasi di Lampedusa, combattente nelle due guerre, antifascista, profondo conoscitore della letteratura europea, ma estraneo all’establishment culturale italiano, lo scrive nel 1955-6. Questo affresco ammirevole, impregnato di pessimismo e di verità, della Sicilia al tempo dell’epopea garibaldina e degli anni che seguirono l’Unità, non incontrò il favore di Elio Vittorini, che dirigeva a quel tempo presso Einaudi la collana “I Gettoni”.
Eminenza grigia della letteratura italiana del dopo guerra, Vittorini giudicava che questo romanzo storico arrivasse con qualche cinquantina di anni in ritardo. Tomasi di Lampedusa morì nel 1956 a 60 anni senza aver visto il suo libro pubblicato. E’ l’editore milanese Feltrinelli che, su indicazione di Giorgio Bassani, lo pubblica l’anno seguente. Il trionfo de “Il gattopardo” in Italia e nel mondo intero fu uno schiaffo per i neorealisti e gli ideologi della letteratura impegnata.
E’ grazie alla perspicacia di un altro editore milanese, Adelphi, la nascita, nel 1974, del caso Guido Morselli. E’ pur vero che la fine tragica dello scrittore suicidatosi il 31 luglio 1973 a 61 anni si prestava a una trasformazione mitica dell’uomo in scrittore maledetto e della sua opera romanzesca, decisamente troppo deviante e anticonformista, in superba tomba. Se Morselli era riuscito a pubblicare i suoi saggi, per contro aveva ricevuto solo rifiuti per i suoi romanzi. Uno dei suoi manoscritti fu dapprima accettato e anche stampato in prova e poi cancellato dai programmi editoriali. Tutti i suoi romanzi – ironiche riletture storiche, riflessioni disincantate sulle istituzioni, il male – vengono editi postumi a partire dal 1974. Ricordiamo Le Passé a venir (1975), Divertimento 1889 (1975), Le Communiste (1976), Dissipatio (1977).
I casi non sono necessariamente legati al rifiuto di un manoscritto, o ad una errata valutazione, presto riparata nei due casi menzionati, che costellano inevitabilmente la storia letteraria. Agli inizi degli anni ’80 il caso Eco segna l’ingresso sorprendente di un filosofo nel campo del romanzo, il passaggio – sapientemente preparato a accompagnato da un’eccezionale campagna pubblicitaria – dalla semiotica al romanzo. In quanto semiologo esperto, Eco capta i segni del tempo: l’interesse ritrovato per il Medio Evo, di cui un’abbondante produzione scientifica e di valorizzazione – saggi, biografie romanzate, etc. – apre la porta al turismo di massa, l’inusitato successo del romanzo poliziesco, abili concessioni alle mode ambientali. In breve “Il nome della rosa” è un prodotto perfettamente confezionato che appartiene tanto – se non di più – alla sociologia del gusto che alla letteratura. Il successo degli altri due romanzi conferma l’attitudine di Eco, sostenuto da una cultura enciclopedica, a scrivere dei best sellers.
Il caso Eugenio Corti, uno dei più significativi degli anni 80, è sensibilmente diverso: il romanzo Il cavallo rosso (1983) pubblicato – per fortuna – mentre l’autore è ancora vivente, lancia una sfida alla cultura dominante e, contro ogni aspettativa, la vince. Che uno scrittore debutti come romanziere a 62 anni pubblicando un libro di più di mille pagine, che gli è costato undici anni di solitaria fatica, può far riflettere alla posta di una tale impresa. Certo i debutti tardivi – e validi – nel romanzo non sono un’eccezione nella letteratura italiana contemporanea: pensiamo a Tomasi di Lampedusa e Gesualdo Bufalino.
Per delineare la natura del caso Corti, di gran lunga più interessante, si impone una deviazione sulla sua biografia.
Nato il 21 gennaio 1921 a Besana Brianza, in Lombardia, Eugenio Corti appartiene ad una generazione che ha conosciuto la guerra. Dapprima è inviato al fronte russo; dopo la resa dell’Italia fascista, Corti sa qual è il suo dovere: si impegna nel corpo di liberazione italiano che, al fianco della V armata americana, combatte i Tedeschi in Italia. Dalla sua esperienza della tragica ritirata in Russia, Eugenio Corti trae una cronaca allucinante: I più non ritornano – Diario di 28 giorni in una sacca sul fronte russo, inverno 1942-43. Pubblicato nel 1947 dall’editore milanese Garzanti, tradotto in diverse lingue, I più non ritornano ha raggiunto, agli inizi degli anni ’90, la decima edizione. La campagna dei soldati del corpo di liberazione italiano – questi trascurati dalla storia – ispira un’altra cronaca: Gli ultimi soldati del re (I poveri cristi, 1951). Nel 1962 la sua opera teatrale Processo e morte di Stalin è messa in scena da Diego Fabbri. Sarà tradotta clandestinamente in russo e polacco. Durante gli anni settanta, nella sua alta solitudine di Besana, Eugenio Corti si dedica a Il cavallo rosso. Questo romanzo storico gli è costato un lavoro immenso: riordinare i suoi ricordi, verificarne l’esattezza, affidarsi, per sostenere gli avvenimenti di cui non è stato testimone oculare, ad una documentazione fedele, di prima mano. Il libro, il cui epicentro è situato nella campagna lombarda, si compone di tre grandi parti, i cui titoli sono ispirati dall’Apocalisse di san Giovanni: Il cavallo rosso, Il cavallo livido L’albero della vita. Lo scrittore descrive la storia di un gruppo di giovani del paese di Nomana dal 1940, data dell’entrata dell’Italia nella seconda guerra mondiale, fino al 1974, una svolta nella società italiana. La guerra è il primo detonatore che modifica i destini individuali. Ambrogio e Michele si ritrovano sul fronte russo. Manno è invece destinato in Libia e poi in Grecia. Dopo la sconfitta si arruolerà nel corpo di liberazione italiano.
Dopo la svolta del 1948 e lo smacco del fronte popolare (comunisti e socialisti) alle elezioni italiane – la cui vittoria avrebbe trasformato l’Italia in una repubblica socialista – il romanzo si ramifica in varie direzioni, per seguire l’evoluzione dei destini individuali, per decifrarne i messaggi. Questo mondo, formicolante di personaggi, di drammi, di grandiose scene corali – si pensi in particolare alla disfatta delle truppe dell’Asse sul fronte russo – è immerso nella complessa luminosità del vero. Cosa che spiega la moltiplicazione dei punti di vista narrativi, l’assenza di categorie e di separazioni definitive tra personaggi positivi e negativi, così come la luce cruda, nient’affatto voluta, che rischiara la guerra sul fronte russo, sugli altri fronti, la resistenza nel Nord Italia – la rivalità fra le diverse appartenenze politiche – la storia politica e sociale dell’Italia democratica e repubblicana, in breve, pagine di storia troppo spesso alterate da mezze verità e da un comodo irenismo. Come sfondo, la perversione fondamentale dei totalitarismi nazista e comunista, la cui radice, secondo Eugenio Corti, deriva dal rifiuto di una nozione spirituale dell’uomo.
L’autore de Il cavallo rosso dunque non era che uno sconosciuto. E lo ridiventa quando si tratta di trovare un editore per questo romanzo. Perché i grandi editori si defilano. Meno spaventati dall’eccesso di questo libro, d’altra parte necessario per l’ampiezza delle prospettive, che imbarazzati dal suo anticonformismo culturale e letterario: a causa della sua testimonianza inconfutabile, della sua componente “profetica”, Il cavallo rosso si oppone apertamente alle verità ufficiali e ai pregiudizi ideologici dell’intellighenzia italiana, più lenta a sgretolarsi del muro di Berlino. L’ispirazione cristiana di Corti non fa che aggravare il suo caso.
In breve, la cultura italiana, ancora largamente influenzata da un marxismo più o meno stemperato, riserva a Eugenio Corti – con le dovute proporzioni – la stessa sorte toccata a Solgenitsin: diffidenza, silenzio . in tutta la misura possibile – traduzioni tardive. Il cavallo rosso appare infine nel maggio 1983 presso Ares, una piccola casa editrice di Milano, il cui catalogo si apre per la prima volta alla letteratura romanzesca. Nessuna campagna pubblicitaria per l’uscita del libro.
Ed è qui che il caso Corti comincia ed acquista il suo significato esemplare. Perché, a partire dalla sua stampa, e lungo la serie di ristampe che si sono succedute ininterrottamente dal 1983 – già dieci agli inizi degli anni ’90 – Il cavallo rosso, comunque ignorato da una parte della critica ufficiale, ha catturato un largo pubblico.
E nel 1986 un fatto ha infastidito non poco i responsabili del supplemento letterario di un quotidiano torinese che aveva lanciato un’inchiesta sul più bel romanzo dei dieci anni precedenti. Eugenio Corti e Il cavallo rosso occupavano in classifica un posto incredibilmente buono, distanziando Sciascia, Morselli, Moravia…
I grandi editori corrono infine in soccorso delle vittoria: nel 1986 Mursia ha adattato per i licei un ampia parte del romanzo. Il cavallo rosso supera in fretta i confini italiani: è già stato tradotto in spagnolo e in lituano; la traduzione inglese sta per comparire in America; le traduzioni giapponese e romena saranno presto pubblicate. Un adattamento televisivo in dodici puntate è allo studio.
Ci si può interrogare sulle ragioni di questo sorprendente successo in libreria di un romanzo che non fa alcuna concessione e che a saputo creare tra autore e lettori una corrente di simpatia formidabile. Il numero eccezionale di lettere ricevute da Eugenio Corti lo dimostra. Questo dipende soprattutto dal carattere di testimonianza che riveste questo romanzo: non solamente i personaggi storici che lo attraversano, ma tutti gli avvenimenti storici narrati – dalla campagna di Russia alle manifestazioni della barbarie nazista, dalla scoperta dei gulag comunisti agli episodi della resistenza nel Nord Italia, alla vita politica degli anni cinquanta e sessanta – sono assolutamente e rigorosamente veri. Questa forza della verità è il cemento che sostiene Il cavallo rosso. Ma Eugenio Corti ha scritto anche un grandissimo romanzo. Il suo soffio epico, la varietà dei registri stilistici, la verità e la potenza delle passioni conquistano il lettore fin dalle prime pagine. Senza dubbio destinato a resistere alla prova del tempo, Il cavallo rosso fa pensare a Manzoni, così come ai grandi romanzieri russi, in particolare a Tolstoj.
In conclusione, il caso Eugenio Corti mostra che la passione per la verità – sia pure anticonformista – può ancora vincere le battaglie culturali. La libertà di spirito non ha completamente abbandonato la letteratura: un autore può confidare nell’intelligenza dei lettori e del suo editore. Che Vladimir Dimitrijevic abbia voluto che la traduzione francese di questo ammirabile romanzo apparisse presso Äge d’Homme, ne è una conferma eclatante.
(François Livi, 1996)