L’altra faccia della Resistenza
E’ la fine del maggio 1944, giusto cinquant’anni fa. Un sottotenente del Gruppo di artiglieria campale della divisione Nembo, inquadrata nell’VIII armata britannica e quotidianamente impegnata in scontri con i Tedeschi, è chiamato dai superiori. E’ di Esperia, provincia di Frosinone. E’ un soldato del Re, fa parte del Corpo italiano di liberazione (Cil) e ha scelto di combattere al fianco degli Alleati.
Per lui ci sono notizie ferali. Sua madre, la sua fidanzata e suo padre sono stati uccisi dai marocchini al comando del generale francese Juin. Cioè da truppe alleate! Da quei marocchini che, come ricompensa per aver preso le rovine di Montecassino, sono stati autorizzati dai loro ufficiali (francesi, ma anche americani) a razziare, violentare e uccidere tutti gli inermi che avessero trovato.
Gli sventurati familiari dell’ufficiale, prima di essere uccisi, hanno subito violenza sessuale. Tutti e tre, anche il padre. Il povero ragazzo è annientato. Lo pongono in congedo. Può tornare a casa, alla sua casa di contadino. A piangere sulle tombe delle persone che più amava.
E’ questo uno dei cento e cento racconti (tutti storici, tutti veri) di un libro straordinario, che s’intitola Gli ultimi soldati del Re (Ares); ne è autor quell’Eugenio Corti che un recente referendum ha definito “il più amato scrittore cattolico vivente”. Gli ultimi soldati del Re è il compimento di una trilogia che comprende i ben conosciuti I più non ritornano (sulla ritirata di Russia, Mursia) e Il cavallo rosso (Ares).
Corti scrive sotto forma di romanzo, perché del romanziere ha la forza e la capacità, ma anche questo, come i suoi altri, è un libro di storia: una storia romanzata, come pochi sanno fare, dunque una grande storia. Ma chi sono “gli ultimi soldati del Re”? Sono gli ufficiali che, riusciti a sfuggire alla cattura nel settembre 1943, anziché imboscarsi si sono presentati ai residui comandi in Puglia, spesso attraversando avventurosamente la linea del fronte, come ha fatto Corti, e come hanno fatto i suoi compagni Antonio Castelli, Giovanni Guatelli, Antonio Moroni e Ferruccio Schiavi, l’indimenticabile istriano “Cèt”.
Non si tratta necessariamente di monarchici. Corti non lo è. E’ anzi repubblicano. Ma, in quel momento, di fronte ad un’Italia presa a calci da tutti, di fronte, da un lato, all’ignominia dell’8 settembre e, dall’altro, all’impossibilità di stare coi fascisti, alleati di quei tedeschi di cui egli ha tragicamente conosciuto l’arroganza durante la campagna di Russia, sente come un imperativo morale quello di continuare a combattere con le stellette. Sotto il tricolore.
Ecco il racconto dell’unico suo “contatto” con la monarchia: “Il principe Umberto avvertì il contrasto tra la mia e la sua elegante divisa di stoffa diagonale, e sembrò volersi scusare: a mezza voce mi disse che, in ogni caso, si trattava dell’unico abito di cui disponesse. Provai imbarazzo e assieme un impulso di simpatia per quell’uomo”.
I primi reparti combattenti si formano grazie ai volontari come Corti e ai nostri soldati raccolti sulle coste balcaniche, ancora in preda all’orrore per ciò che avevano subito ad opera dei Tedeschi: “Ufficiali legati strettamente in fasci di decine e buttati in mare dalle navi: anche se in Italia l’esercito avesse resistito, quella, e non diversa, sarebbe stata la sorte di noi militari”.
C’è dunque animosità contro i Tedeschi, e non tarda a manifestarsi nelle battaglie che contrassegnano la risalita della penisola lungo l’Adriatico, il settore dov’è impegnata la Nembo. Una risalita lenta, faticosa, terribile, con il terreno disputato metro per metro ai soldati della Wehrmacht, una risalita segnata dalle croci degli artiglieri e dei paracadutisti saltati sulle mine tedesche o caduti nei terribili corpo a corpo delle battaglie di Filottrano, del fiume Musone e di Grizzano, alle porte di Bologna: “C’erano sul terreno un sergente maggiore nostro e un maresciallo tedesco abbracciati, ciascuno con la mano sull’impugnatura del pugnale immerso nella schiena dell’altro”. Eppure i Tedeschi, “quando se ne sono andati, hanno lasciato sul posto il loro medico per curare i nostri feriti”.
C’è dunque posto anche per la cavalleria. Ma il contrasto più crudele deve ancora venire, per questi soldati italiani nobili e idealisti, così diversi dai partigiani comunisti. Ed è sconvolgente proprio l’urto con i comunisti, usciti dalle boscaglie a Chieti, a Teramo, ad Ascoli, a Macerata, a Urbino, a Bologna, subito dopo l’arrivo dei “soldati del Re”. Ovunque vendette, uccisioni di fascisti inermi razzie di case e di averi. Ed è ancor peggio al Nord, dopo, nelle città e nei paesi della Lombardia, del Veneto, dove il reparto di Corti è comandato. “In mancanza ormai di fascisti, assassinavano alcuni concittadini che si erano dimostrati, durante la nostra permanenza, amici dell’esercito”.
Un giorno, il sottotenente “Cèt” ha un presentimento: sua madre è rimasta a Cherso e là sono arrivati i comunisti di Tito: degli alleati, dunque. “Nella macelleria di Villa del Nevoso, in Istria, erano state appese tre o quattro donne italiane squartate. Vicino a Fiume, diversi Italiani erano stati ferrati con ferri equini, i ferri ribaditi sul dorso del piede, poi costretti a camminare finché erano morti”. “Cèt” ottiene una licenza. Purtroppo il suo sospetto è diventato realtà: sua madre, con un fratello di lei, è stata portata via dai comunisti. Di loro non si saprà più nulla.
Si divora, questa cronaca-romanzo, e si chiudono le sue pagine con l’amaro in bocca: il sacrificio di questi suoi figli migliori, gli “ultimi soldati del Re”, l’Italia lo ha sempre colpevolmente ignorato.
(Luciano Garibaldi, 31/05/94, Il Giornale)