Il buon soldato

Gli ultimi soldati del re - edizione americanaSi è subito detto che questo recente romanzo di Eugenio Corti (il più amato scrittore vivente di ispirazione cattolica secondo un recente sondaggio editoriale), è il seguito di quell’altro suo, di dieci anni fa, dal titolo Il cavallo rosso, mirabile affresco dell’Italia e dell’Europa tra il ’45 e il ’70.

La verità è che il libro di oggi (Gli ultimi soldati del Re, Milano, Ares, 1994, pp. 317, L. 28.000), storia di uomini che anche se inquadrati nell’esercito regolare combatterono insieme con gli “Alleati” contro i tedeschi, pur essendo con quello sopracitato in rapporto storico-tematico e tecnico-stilistico  molto stretto, può ben essere letto in piena autonomia. Non ha bisogno di antecedenti, per sussistere, questa ulteriore vicenda a firma del Corti: vicenda di guerra per niente affatto conosciuta come merita, e tuttavia di grande importanza in quel momento in cui si trattò di rischiare, oltre la patria, la coscienza; oltre la vita, la dignità.

Lei è conosciuto come scrittore molto contro-corrente. Quali sono – chiediamo a Corti – i maggiori ostacoli che il suo lavoro incontra?
Gli ostacoli provengono tutti dal fatto che in Italia da parecchi decenni la “Repubblica delle lettere” è espropriata, saldamente in mano a letterati progressisti che subordinano la letteratura alla politica. Mi spiego: dopo la guerra i marxisti (con l’aiuto di molti altri) hanno tentato, com’era nel loro programma, di impadronirsi dei mezzi della produzione (la terra e le fabbriche, incluse le “fabbriche” della cultura e dell’informazione).

Non ci sono riusciti quanto al resto, ma quanto alla cultura – almeno a quella ufficiale – in gran parte sì.In particolare quanto alla letteratura: il pensiero marxista prima, poi, dopo il crollo del marxismo, il “pensiero debole” che gli è succeduto (portato avanti dalle stesse persone), condiziona incontrastato le principali case editrici, le maggiori università, le pagine letterarie dei maggiori giornali, della radio e della televisione, tutti i premi letterari. E’ il “nuovo principe”, succeduto, dopo pochi anni d’interregno, al fascismo, e in pratica selettivo e intollerante al pari del fascismo, sebbene si pretenda campione di democrazia.

Chi non è disposto a piegarsi ad esso si trova inesorabilmente emarginato dalla “Repubblica delle lettere”. Penso a uno dei maggiori scrittori italiani della seconda metà del secolo, il cattolico Mario Pomilio, per il quale il processo di emarginazione continua anche dopo la morte, e a Guido Morselli, un “laico” non disposto a piegarsi alla “cultura dominante”; che ha finito col suicidarsi al pari del mio povero amico Gennaro Manna. In Italia perché un’opera (specie se si tratta di un’opera di valore) venga riconosciuta ed accettata, deve contenere almeno una grossa offerta d’incenso al Moloch. (E’ stato il caso del bellissimo film L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi, autenticamente cristiano, il cui protagonista però, pur potendo ricavare dalla legna da ardere accatastata nel cortile della cascina quanti zoccoli voleva per il figlioletto, ha tagliato invece un alberello in cultura, per essere così scacciato dal padrone, e dimostrare l’odiosità di tutti i padroni).

In ogni caso non mi sembra che lei possa lamentarsi: il suo nuovo romanzo Gli ultimi soldati del Re sul quale in particolare vorrei intrattenermi, uscito a metà maggio, è già alla terza edizione, mentre il suo romanzo precedente Il cavallo rosso ha avuto dal 1983 a oggi nove edizioni, e ne sono uscite le traduzioni in spagnolo e lituano, e – a quanto leggo – stanno per uscirne le traduzioni in francese, inglese e giapponese.
Io non mi lamento perché non fa parte del mio carattere. Di più: i giudizi positivi dei pochi critici davvero liberi, e di tanti e tanti lettori, sono per me preziosissimi, e rappresentano il conforto e l’appagamento necessario ad ogni scrittore; non solo, ma anche un valido sprone a proseguire nel lavoro. I miei libri si diffondono appunto per la propaganda spontanea che ne fanno i singoli lettori, e le traduzioni de Il cavallo rosso non sono opera di agenti letterari, ma vengono tutte dal fatto che qualcuno di altra lingua si è innamorato del romanzo. E’ però anche vero che, col passare del tempo, essendo le mie opere rigorosamente ignorate dalla cultura ufficiale, molti anche fra i critici e i lettori più entusiasti finiranno col perdere, almeno in parte, l’iniziale sicurezza circa il loro valore.

L’attuale espropriazione della letteratura però non durerà in eterno, confido dunque che, sia pure dopo la mia morte, anche per il mio lavoro verrà il tempo del riconoscimento. Comunque, ripeto, non lamentiamoci: pensiamo alla sorte degli scrittori russi, quasi tutti uccisi, o deportati, o chiusi in manicomio.

Eugenio CortiCircoscriviamoci al suo nuovo libro Gli ultimi soldati del Re: non è sempre storia, ma non è mai solo romanzo o tutta fantasia, non sposa la cronaca ma non la tradisce; non abbandona i fatti ma li sovrasta; non si interessa solo agli eventi ma anche alle idee, alle riflessioni, alle meditazioni. Allora?
Della mia prima opera l’indimenticabile maestro Mario Apollonio ha scritto, molti anni fa, che è “romanzo-poema-dramma-storia”. Ciò vale anche per i libri successivi. Io non posso scrivere in altro modo, sono come gli scrittori di tanti secoli fa, non posso “specializzarmi”.

Cosa significa – incalziamo lo scrittore – o come si può avvertire in sé lo spirito di Dio e restare nella battaglia, anzi trarre forze per la battaglia?
Nella pagina finale de Gli ultimi soldati del Re – risponde – riferisco di avere avvertito lo Spirito in me in rapporto alla battaglia delle idee, non delle armi. Al riguardo il critico Cesare Cavalleri, nostro comune amico, consente, anzi dice che da questo emerge “una incoercibile vocazione di scrittore”.

Fra le pagine de Gli ultimi soldati del Re, e fra i suoi episodi, si ha l’impressione che, alla fin fine, la guerra renda migliori, che certi fiori del bene non attendano altro per fiorire. Le è sfuggita di mano una “propaganda” inconscia?
Propagandista della guerra, bellicista, io? Ho sempre ritenuto di essere il contrario , e per fortuna molti lettori me lo hanno scritto. Specie in relazione a I più non ritornano, che diversi hanno definito il libro che fa più odiare la guerra fra quanti ne hanno letti. Dire guerra, in ultima analisi, è dire morte, e di solito morte nel più tragico marciume. Non si tratta però di un fenomeno liquidabile in due parole. Perché è molto complesso, e tra l’altro esalta nelle persone coinvolte sia i difetti (la viltà, l’egoismo più spietato, la crudeltà, l’ignobiltà), sia le doti (il disinteresse, l’eroismo, lo spirito di sacrificio, l’abnegazione). Offre perciò possibilità incomparabili di analisi dell’animo umano. Dunque, mentre consiste in un marasma di sozzure assolutamente inimmaginabili per chi non l’ha sperimentata, la guerra rende anche migliori i migliori; nonché quelli che, trovandocisi, non rifiutano di portare la loro parte di peso, fino eventualmente al sacrificio.

Per questo uno che se ne intendeva come pochi, il cappellano don Carlo Gnocchi (di cui è in corso il processo di beatificazione) definiva il soldato – quando muore al fronte – alter Christus. A me sembra che lo scrittore che affronta la realtà della guerra sia tenuto a renderla anche in questi suoi aspetti.

(a cura di Claudio Toscani, 04/12/94, La Gazzetta di Parma)