Eugenio Corti racconta il Medioevo
«Il popolo cristiano esiste perché ha dei padri e dei fratelli maggiori, ed Eugenio è stato per più di una generazione un vero fratello maggiore, la cui chiarezza mentale e statura morale hanno costituito e costituiscono una risorsa per tutti». Così Cesare Cavalleri, direttore di Studi Cattolici, ha introdotto la figura di Eugenio Corti alla platea riunitasi presso la libreria Archivi del Novecento giovedì 18 dicembre [2008] per la presentazione dell’ultima fatica letteraria dell’autore brianzolo, “Il Medioevo e altri racconti” (pp. 194, Ares). Assieme all’autore sono intervenuti gli scrittori Ferruccio Parazzoli e Alessandro Zaccuri.
Nel 1983 Ares pubblicava il capolavoro dell’autore, l’epopea del Cavallo rosso, romanzo tradotto in nove lingue, che da due decenni sfida le leggi dell’editoria italiana (è giunto ormai alla 24° ristampa) e che ha fatto parlare di Eugenio Corti come del «Tolstoj italiano del Novecento».
In seguito, l’autore si era applicato ai “romanzi per immagini”: La terra dell’indio e L’isola del Paradiso. Con Catone l’antico, Corti aveva fatto rivivere ai lettori un punto cruciale della storia romana, la lotta contro la corruzione dell’ellenismo e contro il sistema socio-economico basato sullo schiavismo. Con questo nuovo libro, Corti può finalmente dedicarsi al periodo storico da lui più amato, il Medioevo, visto come paradigma realizzato della civiltà cristiana. E lo fa raccontando la storia della beata Angelina da Montegiove (1377-1435), conterranea della più nota beata Angela da Foligno (1208-1309), premettendo un ampio excursus che valorizza il Medioevo nella storia dell’umanità. Il tono narrativo, frutto del costante sforzo storico e documentario che caratterizza tutta la produzione dell’autore, è lo stesso che Corti utilizza nei suoi incontri con i numerosissimi studenti universitari che vanno a trovarlo nella sua casa in Brianza, che trovano «nell’aquila dei suoi 87 anni» uno straordinario testimone del Ventesimo secolo e un maestro per i tempi nuovi. Ed è ai giovani che il libro è indirizzato: «Ci sono dei punti fondamentali che vorrei trasmettere ai ragazzi – ha dichiarato l’autore. Vorrei proporre loro quest’epoca, perché credo che vi siano molti elementi di insegnamento».
La direzione verticale
La seconda parte del volume racchiude una quindicina di testi brevi, scritti nell’arco di un quarantennio, che accanto agli indimenticabili ricordi di guerra, allineano interventi sulla contestazione del ‘68, istantanee di amici esemplari (don Carlo Gnocchi, in primis), un originalissimo ex-voto per san Michele Arcangelo e una suggestiva Apocalisse anno duemila.
Lo scrittore Ferruccio Parazzoli ha definito l’opera di Corti un libro saggistico solo in apparenza, poiché all’interno di esso si mescolano approcci diversi, e una grande varietà di temi e di scrittura. «Per chi come me non vive in un ambiente dichiaratamente cattolico, la lettura di questo libro scuote, addirittura mette in imbarazzo». La scossa, per Parazzoli, viene causata dalla posizione morale dello scrittore, che si riflette anche sulla sfera della riuscita letteraria. L’opera di Corti si distingue dall’attuale panorama letterario, che legge tutto solo “orizzontalmente”: «Manca oggi la dimensione verticale, quella fatta di cielo e di abisso. La scrittura di Corti, invece, canta i dolori e le gioie della terra tenendo sempre presenta la direzione verticale, con tutti i pericoli che questo arrampicare comporta: prima fra tutte, la complessità dell’essere semplici e al tempo stesso profondi».
A questo proposito, la prima sezione del libro si apre con un saggio che è innanzitutto dichiarazione di poetica. In esso l’autore attua un chiaro distinguo tra contenuto e forma, tra arte e testimonianza, richiamando un concetto ormai in via d’estinzione: quello di identità tra scrittura e fede, tra narrazione e missione di verità. Non vi è dubbio che questi due aspetti coincidano, per un autore che considera il romanzo «il poema dell’antichità classica trasferito nella modernità». Corti si propone di proseguire una linea di scrittura alla quale si sente profondamente legato, che parte da Omero e che si è sviluppata prima nel mondo greco, poi nella classicità romana, soprattutto con Virgilio, e che è proseguita attraverso il Medioevo e il Rinascimento (epoca, questa, che nella sua parte positiva si sviluppa sulle basi stesse del Medioevo) per giungere poi fino agli inizi del Novecento. Questo iter letterario ideale costituisce per Corti la “linea madre” della nostra cultura: una scrittura fondata su un misto di trascendenza e d’immanenza. Secondo l’autore, dopo i primi del Novecento questa linea si è assottigliata, deviando verso un sostanziale nichilismo che non è più stato in grado di fornire all’uomo delle risposte soddisfacenti.
È in questo senso che si spiega la volontà di Corti di trattare in questa nuova opera l’età del Medioevo. L’elogio va letto non come preferenza artistica, ma piuttosto come scelta umana, che corrisponde alla testimonianza di quei valori che amalgamarono la civiltà occidentale.
Sogno (non freudiano)
Di fatto, Corti ha definito tutte le sue opere (comprese quelle saggistiche) in qualche modo autobiografiche. Se con “Il cavallo rosso” l’autore andava progressivamente identificandosi in uno dei personaggi, Michele Tintori, in “Il Medioevo e altri racconti” Corti non si proietta su un personaggio in particolare, ma la storia di Angelina è sempre inframmezzata dalla presenza dello scrittore, in una scrittura anti-narrativa, che si cela, coraggiosa e innovativa proprio nella sua apparente tradizionalità. Esemplificativo in questo senso è il recupero della dimensione del sogno, quella che alcuni critici hanno chiamato «visionarietà». L’onirico, per Eugenio Corti, non è visto come un prodotto della psiche, non è groviglio freudiano da analizzare alla luce di categorie psico-scientifiche, ma coincide piuttosto con un’agnizione, come nell’Omero che tanto ama. I sogni sono esterni al sognatore e realmente esistenti al di là di esso: consistono in una visione illuminata, dialogo con una presenza sognata, che illumina l’uomo sulla verità. Probabilmente è proprio questo realismo onirico a spiegare l’affezione che da anni lega i lettori all’opera cortiana: è infatti attraverso la visione che lo scrittore risponde al bisogno di verità e di semplicità che l’uomo sempre ricerca, e a cui i suoi libri hanno sempre cercato di dare una risposta.
Non è il Nome della rosa
Lo scrittore Alessandro Zaccuri ha contrapposto l’opera di Corti a quella di Umberto Eco, Il nome della rosa. «Per Corti il Medioevo non è un tema, quanto un modello: è visto come categoria alla luce della quale la storia intera può essere interpretata. Non dimentichiamo che è il Medioevo è innanzitutto il tempo delle grandi cattedrali. E costruire cattedrali è anche quello che fa Corti, un’opera ardita, in continua evoluzione, imperitura».
La categoria interpretativa interna all’opera è invece del tutto umana. Corti, vecchio soldato, ha visto gli orrori della guerra e dei lager. «Ho ricercato la figura del soldato anche nel Medioevo. E ho trovato l‘immagine del cavaliere, che metteva Dio sopra tutto. Il cavaliere medioevale non infierisce sul nemico per ucciderlo, ma gli stringe la mano. C’è della bellezza in questo, e questa realtà investe tutto il mondo». Zaccuri ha concluso l’incontro mettendo a fuoco la peculiarità ultima dell’opera: il mancato distacco tra due dimensioni troppo spesso poste ad estremi irraggiungibili, quella del reale e quella mistica. «Corti è un uomo che è andato alla ricerca delle poche cose semplici che sono chiave di risposte. Recentemente in letteratura il linguaggio della teologia della religione è usato ampliamente, ma sempre in senso misticheggiante. L’aspetto affascinante di Eugenio Corti è che al posto della complessità, di fatto vuota, c’è un’immagine, semplice, ferma, riconoscibile. Che dà significato e dà verità a tutto il resto. E il lettore non può fare a meno di pensare: “Se è vera questa storia, ci sono dentro anch’io”».
(Chiara Sirianni, 21/12/08, Tempi)