La terra dell’indio di Eugenio Corti, una storia da riscoprire

La terra dell'indio

Nel romanzo del grande scrittore brianzolo Eugenio Corti il riuscito esperimento delle Reducciones gesuitiche in Paraguay e la gamma delle emozioni di una vita.

A un certo punto – dichiarò anni fa Eugenio Corti alla sua biografa Paola Scaglione – mi ero imposto di leggere alcuni importanti autori della letteratura moderna, che non ero mai riuscito ad accostare perché mi suscitavano troppa ripugnanza. Tra questi Voltaire. Ho cominciato col Candido e, ancora una volta, dopo averne letto qualche decina di pagine, l’ho abbandonato. Ma il fatto che in quelle poche pagine parlasse così male delle Riduzioni dei gesuiti in Paraguay mi ha indotto a pensare che in esse dovesse esserci qualcosa di veramente buono.

Perciò ho cominciato a interessarmene. Quella storia mi ha talmente affascinato che ho scritto un racconto per immagini sugli indios guaranì. È stato un lavoro molto lungo, perché ho dovuto verificare una grande quantità di materiali».

Una ricerca accurata per 5.000 km 
Come mezzo secolo prima, da giovane sottotenente dell’esercito italiano, aveva chiesto di essere arruolato nell’Armir per poter toccare con mano l’esperimento comunista in Russia, così, alle soglie dei settant’anni, Corti volle conoscere di persona almeno le rovine delle leggendarie missioni fondate tra il Sei e il Settecento dai Gesuiti, facendo nel 1991 un viaggio in Sudamerica, dove percorse più di cinquemila chilometri, visitando uno dopo l’altro i resti delle distrutte Riduzioni. Di quella visita «non ci resta nemmeno una fotografia», aggiunge la vedova Vanda, ma abbiamo il libro, intitolato La terra dell’indio (Ares 1998): un “racconto per immagini”, un copione pronto per essere recitato dagli attori, completo di indicazioni di regia e di sceneggiatura.

Il cristianesimo felice 
L’antefatto. Nel 1742, il sacerdote e fondatore della moderna storiografia, Ludovico Antonio Muratori, pubblicò con tale titolo un suo scritto entusiastico sull’operato dei gesuiti nelle Americhe: «Sono innamorato di quelle missioni, perché mi pare di trovarvi la primitiva Chiesa». Aveva attinto informazioni di prima mano dalle lettere del missionario p. Gaetano Cattaneo, eppure molti lo accusarono di aver voluto fare non un’opera obiettiva ma faziosa; il Muratori così rispose all’accusa: «Che poi quello paia un panegirico a me poco importa, purché non mi si possa rinfacciare che abbia detto delle bugie».

Della medesima stoffa è il testo di Corti, un narratore che, come disse Vladimir Dimitrijevic, scriveva sempre con una objectivité céleste… Per questo è provocatorio, perché raffigura la felicità di una gente candidamente immersa nella fede: il lettore non dimenticherà più le storie di Nazareno e Maddalena (a p. 63 c’è una sequenza stupenda su quando un uomo e una donna s’innamorano: un pezzo forte dalla penna di Corti), di padre Marziale e padre Corrado, gesuiti missionari, dei semplici come zio Tantumergo, dell’ingenua vitalità dei bambini indios: Lino, Pia e gli altri; delle donne anziane e dei capi-villaggio come il Cabildo e il Corregidor.

«Il tentativo delle reducciones è stato un fenomeno meraviglioso» disse Corti a Roberto Beretta in un’intervista rilasciata ad Avvenire il 9 febbraio 2000. Ma perché in Paraguay era scoppiato il conflitto tra coloni e indios? Perché quel massacro? «Perché c’era l’impressione che gli indios fossero più animali che uomini. I guaranì praticavano il cannibalismo, la loro religione si esprimeva in ululati alla luna, la mancanza di igiene era terribile e soprattutto erano popolazioni inerti. Da qui l’idea fondante delle reducciones: la missione non doveva più avere come centro la sola chiesa, ma pure il collegio. Tutti gli indigeni dovevano andare a scuola, anche le bambine. E si ottenne dal re di Spagna che nessun bianco entrasse nelle riduzioni, eccetto due Padri: due soli su cinquemila persone».

La terra senza il male? 
«Questa separazione non è per sempre. Ricordàtevelo! Noi ci ritroveremo un giorno in Paradiso». Le parole del personaggio padre Naborre (a p. 277) sono grandi e commuovono gli animi resi fecondi dalla fede della Chiesa, e questo è il valore immenso dell’opera cortiana, nei nostri tempi di evanescenza: di essere artigianato di alta qualità alla luce della fede. Una lettura per tutti. Di fronte all’enigma del tempo, della violenza, del proprio limite (il peccato, per i credenti) il lettore non troverà un conforto quanto invece una superficie abrasiva che terrà le sue ferite aperte perché il narratore dipinge in modo inconfondibile (senza fronzoli, in maniera “classica”) la gamma delle emozioni di una vita, narrando le vite dei guaranì: il batticuore dell’innamoramento, la promessa del matrimonio, la forza intima di quando a un padre nasce un figlio, il conforto gustoso del bere insieme una buona tazza di mate, la morte di una persona cara o la nauseante sensazione della delinquenza (ci sono due episodi di sventato stupro scritto con un realismo unico, cristiano), l’orrore dell’ingiustizia (un esempio: lo sprezzante ministro portoghese Pombal diventa, giustamente, il mostro politico, dal punto di vista dei poveri indigeni).

«Ma l’uomo è così» concludeva Corti nell’intervista sopracitata: «Il peccato originale c’è e bisogna fargli fronte. La presenza di Caino è sempre possibile; non bisogna lasciare che uccida Abele. Perciò i gesuiti ottennero che i guaranì potessero avere armi da fuoco. E, al momento di lasciare le reducciones, capirono che per difendersi meglio gli indios avrebbero dovuto introdurre l’economia di mercato. […j. Io non sono contro il capitalismo, una tendenza che fa parte addirittura della vita fisiologica; sono piuttosto contro la spietatezza dei proprietari dei mezzi di produzione: e lì bisogna intervenire con la legge». Ecco: chi leggerà La terra dell’indio farà un doppio esercizio di pietà intellettuale: nel ricordare la storia dei guaranì sterminati trecento anni fa dai negrieri, ricorderà anche il vigore del loro cantastorie brianteo… E questa è una virtù tipica della vera arte: fare sì che il ricordo diventi costruttivo, tramite una terracotta indigena o un testo scritto a fine Novecento. Del resto, Corti stesso aveva detto di sé: «io non mi reputo un intellettuale ma un uomo di cultura. L’intellettuale nasce solo nel Settecento e la sua struttura mentale è demolitrice: è un utopista che prima di tutto distrugge».

(Andrea Sciffo, gennaio 2017, Il Timone)