La recensione di Cesare Cavalleri a Gli ultimi soldati del Re

Gli ultimi soldati del rePerché mai riproporre, letteraria­mente e in soggettiva, a cinquan­t’anni di distanza, la vicenda del Corpo italiano di liberazione, co­me fa Eugenio Corti con il ro­manzo Gli ultimi soldati del re (Edizioni Ares, Milano 1994, pp. 320, L. 28.000)? Per far luce su una pagina dimenticata di storia italiana, certo. Oppure, e definiti­vamente, “perché”, per dirla con Saba, “il dolore è eterno, ha una voce e non varia”. Sì, è per que­sto. Anche per questo. Ma ci sono altre ragioni, e una in particolare, che converrà considerare dopo a­ver esposto, almeno per sommi capi, il contenuto e i pregi del ro­manzo.

Innanzitutto, la vicenda. La prima parte racconta come l’esercito re­golare italiano agli ordini del re, che insieme agli alleati inglesi, a­mericani e polacchi risalì la peni­sola incalzando la ritirata dell’e­sercito tedesco, si dispose a entra­re in Chieti, nel giugno 1944. Facciamo conoscenza con il prot­agonista — l’io narrante —, con i suoi burberi capi, con i suoi as­sortiti commilitoni e anche con qualche macchietta, come l’Ante­nato: così infatti era soprannomi­nato un vecchietto con monocolo, col grado di primo capitano, man­dato al fronte chissà perché, press’a poco come accadde a Ma­rinetti che, sessantaseienne Acca­demico d’Italia, si intestardì ad andare in Russia nel ‘42 con l’Ar­mir, riuscendo più d’impaccio che d’aiuto.

La seconda parte è un flash-back. L’8 settembre 1943 il tenente Corti e l’amico Antonio Moroni furono sorpresi dall’armistizio a Nettunia, presso Roma. Per intui­to sfuggirono a una retata dei tedeschi e, a piedi, attraversarono tutta l’Italia centrale per incorpo­rarsi al Corpo italiano di libera­zione, in Puglia. E’ la parte più “poetica” e sognante del roman­zo. I due giovani — sono, infatti, poco più che ventenni — incontra­no paesaggi incolumi, costumi ar­caici dei pastori d’Abruzzo, soli­darietà cristiana e anche episodi di meschinità, e par loro di rivive­re quasi una favola, come se si fossero materializzate le letture classiche apprese sui banchi del liceo, ben vive nella memoria.

La terza parte riprende la narra­zione principale: nell’estate del ‘44 il Corpo italiano di liberazio­ne avanza in Abruzzo, prosegue nelle Marche, libera Macerata do­po le battaglie di Filottrano e del Musone. La batteria del protago­nista è assegnata alle retrovie per un meritato riposo.

Nella quarta parte il tenente Corti ritorna al Sud per un corso di ad­destramento sui nuovi equipag­giamenti inglesi; ha modo di per­correre la desolanti strade di Ro­ma “città aperta”, di vedere le ro­vine di Cassino, di interrogarsi sull’ingegnosa acquiscenza di Napoli, una città che gli sembra vivere di sotterfugi. Con questo gustoso bozzetto: “Superai, lungo una grande arteria sporca, un bambino cencioso che dormiva sul marciapiede nel rigurgito del­la folla: per terra, accanto alla te­sta finemente cesellata, gli stava un pezzo di pane. Dopo pochi passi m’arrestai incuriosito da un altro bambino: il quale si accostò al primo, lo considerò in silenzio, prese il pane, ne fece due parti, ne rimise una per terra accanto al dormiente, e se ne andò, sboccon­cellando l’altra» (p. 244). L’inverno è trascorso a Cerreto, nel beneventano.

Nella quinta e ultima parte siamo di nuovo sulla “linea gotica”, nel marzo 1945. La guerra finisce dopo la battaglia per liberare Bologna. Corti ha modo di rive­dere Milano, di passaggio verso il Piemonte per accompagnare al­cuni soldati in licenza. Gli ultimi giorni prima del congedo, in set­tembre, sono trascorsi in Alto A­dige.

La guerra
Un romanzo di guerra, dunque. Ma di una guerra particolare. Non più le epiche battaglie della cam­pagna di Russia che abbiamo co­nosciute nel Il cavallo rosso, che offrirono all’autore anche lo spunto per mettere a tema la du­plice follia del marxismo e del nazismo; questa è una guerra “minore”, condotta dai migliori con grande senso del dovere ma con soldati senza ideali, fra la dif­fidenza degli alleati e con l’incu­bo del domani, a guerra ultimata. Ci sono le battaglie di Filottrano, del Musone e di Grizzano che se­gnano episodi di eroismo, ma prevalentemente la guerra è de­scritta nelle sue ripercussioni in­dividuali, nella psicologia dei combattenti, nelle conseguenze sui civili: una guerra da persona a persona, con lunghi intervalli nei quali l’ozio delle retrovie fiacca il morale dei soldati di cui fa emer­gere il lato peggiore. Con alterni successi, il tenente Corti tiene oc­cupati i suoi uomini imponendo la disciplina, gli addestramenti, e anche interessandoli poveri ra­gazzi semianalfabeti — con prese di coscienza culturale, come l’in­credibile lezione su Dante duran­te una pausa forzata, o le discus­sioni di storia — i liberi comuni e la cavalleria medievale sono nel cuore di Corti —, o i timidi ap­procci teorici alla democrazia fu­tura.

Il giudizio dell’autore sulla guer­ra è netto, reciso: essa è male, so­lo male, non risolve nulla. E na­sce dal disordine morale: la guer­ra non la vuole consapevolmente nessuno, e tuttavia “è qualche co­sa da noi operato, e per così dire via via accumulato nell’ordine morale, che a un certo punto si muove come fa la valanga e, nonostante i nostri sforzi in contra­rio, ci trascina. La guerra viene dunque da una rottura dell’equili­brio nell’ordine morale. E’ il pro­dotto dell’immoralità umana, né più, né meno” (p. 177).

Eppure, in questo gran male, la guerra è anche scuola di fortezza, di generosità, di formazione del carattere. Nell’inverno a Cerreto, il tenente Corti insiste con le i­struzioni per sottrarre gli uomini all’ozio: “I visi dei soldati erano paonazzi, livide le loro mani, che, nel trattare l’acciaio, al minimo graffio si piagavano. Ormai io volevo bene a questi soldati, ed essi mi volevano bene; non pochi mi erano grati per l’energia con cui avevo contribuito a farli ridi­ventare soldati, e me lo dicevano apertamente” (p. 266).

Corti non nasconde la sua ammi­razione per lo straordinario ardi­mento dei paracadutisti della di­visione Nembo, alla quale era ag­gregato il suo reparto di artiglieri: ragazzi spacconi e indisciplinati, capaci di ritentare di cogliere ci­liege su un albero minuto dai te­deschi dopo che un loro compa­gno era già saltato in aria, ma che, dopo la battaglia di Guizza­no, meritarono dal generale A­lexander la Distinguished Service Cross per il comandante e una stretta di mano, uno per uno, per tutti i combattenti.

Incontenibile, come già ne Il cavallo rosso, l’entusiasmo di Corti per le virtù civiche degli alpini, che con naturalezza risplendono in guerra. E accorato, pieno di gratitudine, è l’affetto per i solda­ti polacchi che Corti ha vistò con­tribuire a liberare l’Italia nell’illu­sione di meritare la libertà per la loro martoriata patria. Anzi, Corti arriva a domandarsi “se oggi gli autentici continuatori di Roma, cioè i veri romani, non siano ap­punto i polacchi” (p. 235).

Duro è il giudizio sull’inefficien­za e il velleitarismo dei comandi italiani, esemplati dall’iroso e puntigliosissimo maggiore sopran­nominato “Pelaformiche”, che non perde occasione di angariare il te­nente Corti fino a scacciarlo dal proprio gruppo, e che, appena possibile, si fa assegnare al co­mando territoriale della propria città. Ma c’è anche il colonnello Giaccone, che ha creato dal nulla il reggimento cui Corti appartie­ne, e che pure avrà i suoi guai da parte dei politici (sarà processato) per aver trattato con il feldmare­sciallo Kesserling la resa di Roma: sgradita incombenza che lui si assunse, semplice colonnello, perché tutti i generali si erano di­leguati per sottrarsi alla responsa­bilità. E c’è pure il ligio e spauri­to maresciallo della cassa di Net­tunia, che, unico superstite nella caserma saccheggiata e abbando­nata, resta sul posto per conse­gnare a qualche ufficiale superio­re i fondi rimasti, con la contabi­lità in ordine. Eroismo degli umi­li, generosità dei semplici, inde­gnamente governati.

I politici e il re
Severissimo, e motivato dalla di­retta esperienza, il giudizio sui partigiani comunisti, insanguinati da esecrabili assassinii, e poca l’indulgenza di Corti verso i poli­ticanti che incominciarono a di­scutere per riorganizzare i partiti. Valga per tutti questo ritratto di Benedetto Croce, in occasione del “Congresso dei partiti antifa­scisti” di Bari, in cui si distinse per violenza la delegazione co­munista diretta “dall’ex “littore” ed ex campione di ‘mistica fasci­sta” Mario Alicata”: “Capeggiò in qualche modo il congresso il più autorevole degli antifascisti d’allora, l’ultrasettantenne filo­sofo Benedetto Croce, il quale si atteggiava scopertamente a su­premo correttore d’Italia. (Si rite­neva tale — lo crederà chi ci leg­ge? — per una sorta d’incarico di­rettamente conferitogli dalla Sto­ria: non stiamo scherzando)” (p. 97).

A proposito di politici e di que­stioni istituzionali: il titolo del ro­manzo, con quei “soldati del re”, potrebbe far pensare che Corti abbia propensioni monarchiche. Niente affatto. Egli è entrato nell’esercito del re in quanto espressione del governo legittimo, ma è di tendenze repubblicane. In due punti, rispettosamente, Corti liquida i conti con la monarchia: in occasione di una visita del principe Umberto al fronte, il te­nente prova un impulso di simpa­tia per quell’uomo gentile che sembra quasi volersi scusare per la propria impeccabile divisa al confronto con quella raffazzonata dell’ufficiale, e conclude: “L’uo­mo che avevo di fronte stava ora compiendo, al pari del re suo pa­dre, il proprio dovere, e lo compi­va fra scarsi battimani e molti in­sulti e sputi. Alla testa di un po­polo sempre bravo nell’indivi­duare capri espiatori, ai quali at­tribuire la responsabilità delle proprie incoerenze e viltà” (p. 106), Un’altra volta Corti si sorprende a pensare alla regina: “Era venuta fra noi da un’altra terra, fidando nel re d’Italia e nell’Italia, per raccogliere l’attuale sorte: figura tragica. Se un tempo il poeta s’interessava solo alle tragedie delle regine — pensavo — trascurando quelle delle donne comuni, ora al contrario sembrava interessarsi soltanto alle tragedie delle donne comuni: neanche questo, mi dice­vo, era giusto. E il riserbo dolente e senza conforto della regina d’I­talia (come di una già morta, che non potesse più in alcun modo farsi udire) era per me, italiano, un rimprovero singolarmente a­maro. Rimanga questo, d’umano incontro, il mio canto pro rege” (p. 283)

Etica e fede
Una caratteristica che si trova in tutti i libri di Eugenio Corti, e particolarmente in questo, è la profonda religiosità che permea anche le scelte morali. Aveva vi­sto giusto Mario Apollonio, già nel 1951: “Questo autore cristia­no getta nel raccontare una realtà di materia parenetica e apologeti­ca cattolica con la stessa fermezza con cui un narratore positivista chiedeva e chiede che sia assicu­rato alla materia sua un valore di evidenza documentaria. Per la prima volta, da secoli, fuor degli agguati dello spiritualismo senti­mentale, la Fede è fede di cose». E’ proprio così. Con splendida na­turalezza Corti porge la sua coe­renza di cristiano senza alcun complesso, certo di stare dalla parte di una Verità che lo trascen­de e che conferisce oggettività — non vanto — al suo essere e al suo agire. Pertanto, può descrivere la sensazione quasi fisica della pre­senza dell’Angelo custode al pro­prio fianco, come se si trattasse di un’esperienza per nulla eccezio­nale (p. 189), e offre, fra l’altro, due indimenticabili ritratti di ec­clesiastici: il vescovo abate di Su­biaco che, nel congedare Corti e Moroni dopo aver loro fornito u­na carta topografica con le indi­cazioni dell’itinerario da seguire, esclama: “Poveri signori, come vi compatisco! Voi, che siete tan­to giovani, pagate oggi per il ma­le commesso soprattutto da altri. Ricordate però che il mistero del­la reversibilità è qualche cosa di meraviglioso, e forse un giorno dalle sofferenze di altri potrebbe venire grazia soprattutto a voi”. Alzò quindi una mano a benedir­ci, simile a un re: “Non odiate nessuno, mai: forse il tedesco che muore nello sforzo di farvi del male, muore anche per voi” (p. 55); e i frati di Forano, che accol­gono con gratitudine un artigliere ferito e commentano: “Anche noi frati siamo responsabili di tut­te queste sofferenze. La chiesa at­traversa tempi cattivi, come tante altre volte, ma noi, che siamo po­chi, non abbiamo saputo fare co­me quei buoni soldati che, in po­chi, sanno fare la parte di molti […]. Quando si prende un impe­gno si è tenuti ad assolverlo bene. Specie un impegno come il no­stro. Ma noi non l’assolviamo be­ne. Non abbiamo compensato da­vanti a Dio i peccati che provoca­no la guerra, e anche adesso molti di quelli che muoiono, hanno for­se in sorte la perdizione, soltanto perché noi, per poco amore al sa­crificio, non acquistiamo loro grazia”. “Vedete?” sottolineò un giovane frate, “abbiamo anche la superbia si pensare cose simili: la superbia di sentirci utili. Siamo cattivi frati” (p. 145).

Salutarmente anticonformista è il modo in cui Corti tratta i rapporti con le ragazze. Il giovanissimo tenente è deciso a mantenersi in­tegro fino al matrimonio, e non è il solo: c’è, per esempio, il reli­giosissimo collega Guatelli, di Parma, “un giovane tozzo e forte, con un pallido viso da asceta. Passava ogni giornata di venerdì in completo digiuno perché era dotato d’esuberante virilità, e quel digiuno l’aiutava a vincersi negli anni della feroce giovinez­za. Dire che individui come lui impedivano di disperare del no­stro futuro, non è retorica” (p. 94). E con pudore Corti parla del­le ragazze da cui si sente attratto: Margherita, incontrata solo due volte durante le licenze dopo la campagna di Russia, talmente an­gelicata, talmente confusa con le reminiscenze scolastiche (Laura, Beatrice) che quando, alla fine, Corti se la ritrova davanti in car­ne e ossa non può che restarne deluso; Giulia, con la quale pas­seggia lungo il corso a Chieti, in­fervorandola di parole; la figlia dei proprietari dell’appartamento che lo ospitava in un paesetto marchigiano, verso la quale av­verte un trasporto di sensualità che riesce a dominare a fatica e al quale la ragazza stava per cedere (“Volevo darti la pace, perché a­vevo compassione di te, povero ragazzo”, p. 217); Anna, piccola Circe intellettuale di provincia che vuole annettere anche il te­nentino alla sua collezione. Cer­to, gli “educatori” che oggi inse­gnano ai giovani la morale del preservativo troveranno anacro­nistico o eccessivamente eroico questo comportamento. Ma il co­raggio, le virtù, la generosità, la solidarietà che i ragazzi alla Corti dimostrano in guerra rispecchia­no una formazione del carattere strettamente legata alla castità. Vengono in mente le osservazioni di un medico, raccolte nel punto 124 di Cammino: “Tutti sappia­mo per esperienza che possiamo essere casti, se sia vigilati, se fre­quentiamo i Sacramenti e spe­gniamo le prime scintille della passione senza lasciare che av­vampi il fuoco. Ed è proprio fra i casti che si contano gli uomini più integri sotto tutti gli aspetti. E fra i lussuriosi predominano i ti­midi, gli egoisti, i falsi e i crudeli, tipi caratteristici di scarsa viri­lità”. Certamente, per il futuro della società non si potrà fare af­fidamento sui debosciati del sa­bato sera, ma sui giovani che lot­tano per far prevalere la ragione sull’istinto. E non sono così rari: io ne conosco moltissimi.

Letteratura alta
La scrittura di Corti sorvegliatis­sima (la semplicità, nell’arte, è sempre una conquista), è funzio­nale al racconto, alle cose. Corti, insomma, non vuoi fare una lette­ratura di parole, rifugge dal brivi­do estetico fine a sé stesso. Ma nel romanzo ci sono anche sugge­stioni liriche altissime. A parte la pagina sulle farfalle, veramente antologica, che andrebbe riporta­ta per intero (pp. 204-205), ecco qualche esempio: per il gran cal­do, “l’aria tremolava in un inces­sante ondeggiamento verticale; sopra ogni cosa imperversava la voce della cicala, simile al canto di una regina impazzita” (p. 46). Durante la traversata Corti e Mo­roni sostano in una casa ospitale e si dispongono a dormire su tra­punte e coperte stese sopra l’am­mattonato della cucina; improv­visamente si alza il canto del gril­lo dal focolare che i ragazzi sen­tono per la prima volta e suggeri­sce loro pensieri e ricordi; poi, “in queste riflessioni ci addor­mentammo, mentre dal focolare il grillo seguitava a cantare, soste­nendo per quanto lo riguarda la sua minuscola parte” (p. 75). Do­po aver soccorso alcuni civili di­laniati dalle cannonate tedesche, il tenente Corti inizia col primo buio il suo turno d’osservazione: “Avevo lavate le mani, lorde di sangue fin sopra i polsi, con un sapone disinfettante dall’acre o­dore, e quest’odore si mescolava adesso a quello del sangue e non mi lasciava. Mentre, senza badare a noi, gli insetti dei campi recita­vano in coro le preghiere della se­ra, io tenevo inutilmente le mani dietro la schiena” (p. 150).

E ancora: “I soldati si raggrupparono, chiusi nei pastrani nuovi, a prendere il rancio, facendosi degli autocarri schermo al vento gelido, come tante altre volte. Ciascuno si sentiva solo, col poco che ci stava della sofferenza comune chiuso nel suo tascapane” (p. 277).

Di straordinaria invenzione, forse la vetta del romanzo in quanto o­pera letteraria, è la descrizione della fiabesca processione nottur­na delle statue di pietra che con i santi dell’Umbria impetrano da Dio la pace per il mondo sconvol­to. Questo è l’inizio: “Nelle chiese medievali i guerrieri giacevano col capo appoggiato a guanciali di pietra, le mani chiuse sul petto intorno all’elsa della pe­sante spada, simile a una croce. Di pietra hanno il volto, il corpo, i giachi e gli altri vestimenti, di pie­tra l’ascia legata al fianco, che fu così temuta nei campali duelli. Ma dicono che il loro cuore non sia di pietra e, stretto nella morsa della pietra, sia condannato a soffrire finché dureranno le fazioni con cui essi, primi, divisero là nostra gente.

“Dicono anzi che talvolta, quando per l’ora antelucana la terra sotto il cielo umbro è simile al paradiso, dormendo ancora gli uomini, quel popolo di statue si desti. Forse è una concessione che Dio fa a santo Francesco. Allora i guerrieri la­sciano le chiese, e avanzando tra i colli si lamentano altamente: a lo­ro non è dato ormai di riparare. Il contadino umbro scambierà forse, considerandole, le tracce che han­no lasciato nella rugiada per quel­le della lepre furtiva. Ma le anti­che donne odono il loro lamento e scendono dagli affreschi e dalle tavole dipinte, e gli angeli le se­guono recando gigli, e le monache medievali sorgono dai loro avelli senza nome…”, e così avanti, su questo tono, per un’intera pagina che il lettore gusterà da solo (pp. 274-275), così come, di capitolo in capitolo, famigliarizzerà con i vivissimi personaggi che Corti scolpisce indelebilmente: il gigan­tesco sergente Canèr, vittima della burocratica meschinità dei co­mandanti, il paziente caporale Freddi, il tenente Francescoli, con la sua tragedia segreta, che morirà nell’ospedale di Macerata dopo che Corti aveva insistito perché gli venissero amministrati gli ultimi sacramenti, e il generoso Cèt, di cui i comunisti jugoslavi deporte­ranno la madre, e l’attendente Mo­randi, e tanti, tanti altri.

La ragione definitiva
E’ un romanzo di eventi, di idee, di uomini, questo. E’ il romanzo della speranza “del riscatto in un momento fra i più bui della storia italiana. Una speranza tenue, un’esile fiammella, che verso la fine sembra sul punto di spegner­si, perché nel disorientamento ge­nerale, con gli echi della guerra civile, con la spossatezza degli anni spesi al fronte, gli animi sembrano cedere. Perfino il fede­le Morandi, poco prima del con­gedo, chiede di essere esonerato dal servizio d’attendente. Sem­brano lontani i tempi in cui i sol­dati si infiammavano ai discorsi del tenente Corti, e non c’è più l’artigliere Zaccagnini che, ferito, gli aveva chiesto di andarlo a vi­sitare nell’ospedale di Sarnano per sentirlo ancora parlare del si­gnificato del loro essere soldati, e il tenente giù a spiegargli che cos’è la patria, non quella dei mo­numenti e dei libri di storia (pp. 137-138). La cerimonia del con­gedo è triste, solo il caporale Freddi ha gli occhi lucidi come il tenente che sta per partire. E proprio Freddi, il mite, il buono, il semplice Freddi, gli lascia un re­galo, per suo ricordo: una rivol­tella calibro 7,65, non facile da trovare: “Presi la rivoltella, la e­saminai; doveva essergli costata non poco; “E’ una buona arma” dissi, “ti ringrazio”. Ci stringem­mo mano. “Ormai è sempre naia” disse con un mezzo sospiro il ca­porale Freddi, e dopo avere alzata nel saluto la destra al basco, fece dietro front. Mi tornarono allora in mente le parole che una sera tra le montagne Antonio Moroni aveva dette, quando i nostri ospiti s’erano privati della loro cena per darla a noi: “Davanti a gente co­me questa, si sente che bisogna continuare a combattere”. Se non saremo costretti con le armi, a combattere con le idee, con l’a­zione civile forse?”. Ecco: pro­prio così! In quel momento av­vertii lo Spirito in me, e compresi che non avevo scampo” (p. 316). Ecco, è per gente come questa, perché esiste e continui a esistere gente come il caporale Freddi, che Eugenio Corti scrive. E’ que­sta la ragione del romanzo, che è — lo si apprende definitivamente nell’ultima pagina, che abbiamo trascritto — il romanzo di un’in­coercibile vocazione di scrittore.

(Cesare Cavalleri, settembre 1994, Studi Cattolici)