Così Eugenio Corti andò alla Guerra incalzato dalla provvidenza
Alle origini del Cavallo rosso, alle origini di I più non ritornano e di Gli ultimi soldati del re. Basterebbe questo a fare dei diari di Eugenio Corti (1921-2014), appena pubblicati da Ares con il titolo Ciascuno è incalzato dalla sua provvidenza (pagg. 664, euro 24), un testo di importanza letteraria e umana capitale. Ma in questo lunghissimo monologo interiore scritto tra il 1940 e il 1949 si trova molto di più. Corti, come autore credeva nella sedimentazione, nell’elaborazione a lungo termine; per rendersene conto si pensi alla lunga gestazione della trilogia del Cavallo rosso. Ma incredibilmente questa idea è già presente nei diari di Corti. Il 21 novembre del 1940 la riprende da un libro di Carlo Pastorino (1887-1961): «Per il romanzo non basta saper scrivere, occorrono gli argomenti. E questi ci sono dati dalla vita e dalla lunga esperienza… Chi da giovane ha scritto troppo è rovinato…». E dai diari di Corti emana costantemente questa aspirazione a raccogliere vita, raccogliere esperienza. C’è, in questo giovane non ancora ventenne, una profonda premeditazione alla scrittura che si sposa al senso religioso, quello ben riassunto nel titolo che si richiama alla provvidenza. Alcuni passaggi ci mostrano un Corti ben deciso ad essere protagonista del suo tempo e ad esserlo con una finalità cristianamente precisa. Scrive nel gennaio del 1941: «Glorificazione di Dio per quanto sta in me. Non parlerò qui dell’opera che ho intenzione di fare per raggiungere questo scopo… È un’opera letteraria».
Ecco, i diari non sono letteratura, almeno non nell’intenzione dell’autore. Sono riflessione e testimonianza. In primo luogo modo di essere presenti a se stessi. Ecco perché hanno la spontanea freschezza del vissuto e diventano il modo di toccare la quotidianità che nei grandi romanzi di Corti è sublimata.
La prima parte del libro ci mostra un giovane cattolico che, per quanto dotato di un senso morale fortissimo e quasi ascetico, si trova a condividere i dubbi di una intera generazione. Il fascismo gli è inviso, ma non vuole farsi trascinare dalla politica. Il regime nazista gli appare come ributtante, quello sovietico, calato come una cortina su un pezzo d’Europa, gli appare tremendo, ma magnetico. E intanto la guerra si avvicina, come con i primi bombardamenti su Milano: «Mi sono recato senz’altro sul luogo del disastro. Sono cadute tre bombe, a distanza di circa quaranta metri l’una dall’altra». Chiamato alle armi in una guerra che ritiene sbagliata («estremamente opposta ai miei ideali»), Corti cerca di prendere il bene che può esserci in una cosa terribile come un conflitto mondiale. Del resto nascondersi dietro il suo essere studente gli era doloroso, innaturale: «Io sono ancora a casa come se nulla accadesse, provo una profonda vergogna di me stesso». Il passaggio nelle caserme del Regio Esercito, il diventare ufficiale di complemento, lo costringe ad attraversare tutto ciò che è burocratico, velleitario, ridicolo, come gli elmetti che spuntano solo per la parata di fronte al federale: «Ora bisogna mettere da parte la logica e il buon senso. Se qui dentro si vuol vivere secondo la ragione c’è da impazzire». Ma c’è qualcosa di profondo che lo anima e lo spinge ad andare verso il fronte russo. Ripetute le richieste. Ansia d’avventura? No, ansia di testimonianza, la precisa intuizione che laggiù c’è qualcosa che deve vedere e vivere.
Con il viaggio verso la Russia e il passaggio in Polonia si entra nel vivo di quel materiale umano che toccherà l’anima di Corti modulandone la narrazione. Il dolore, il senso della fede degli umili, l’atrocità dei totalitarismi. E nella tempesta d’acciaio sviluppa, ancor di più, un’altra grande dote da scrittore: l’attenzione spasmodica ai caratteri, ai tratti che rendono ogni uomo unico. Scrive nel luglio 1942: «Quanti nomi, quanti ricordi! Ciascuno di voi è un piccolo mondo a sé, completo, ben definito e diverso da tutti gli altri. Avevo più mondo intorno a me allora, in quelle solitudini, che nelle altre contingenze della vita… Tutte le anime erano aperte l’una all’altra perché tali le rende la guerra». Il disprezzo per i regimi che omologano non è ideologico, è antropologico. Così come innata in lui è la capacità di vedere riflessi nella natura i sogni e i patimenti degli uomini. Ci sono nei diari alcune descrizioni che sono già letterariamente perfette e allegoriche. «In una notte di plenilunio, mi apparve uno spettacolo nuovo, inusitato: miriadi e miriadi di fili di ragno, non più lunghi di un braccio e resi argentei dalla luna, navigavano paralleli nell’aria, tenui, portati dalla brezza. Sopra ogni filo navigava un minuscolo ragno».
Corti, sempre incalzato dalla sua provvidenza, passerà attraverso la ritirata, «i terribili giorni della sacca», la convalescenza a Merano e il nuovo trauma dell’8 settembre. Tragedia di cui Corti ebbe ampi presentimenti e lo colse a Nettunia. Da lì un rocambolesco percorso lo porterà verso sud per schierarsi con l’Esercito cobelligerante italiano. Altra esperienza che vivrà con adesione e nessuna rassegnazione: «Il vivere alla giornata: rispondenza profonda del mio spirito alla vita randagia, all’incertezza del domani». Tanto che, rientrato nei ranghi dell’esercito, non mancarono i contrasti e gli arresti di rigore per uno spirito libero, abituato a pesare se stesso e gli altri sulla bilancia del coraggio. Quella stessa bilancia che lo spingerà alla politica per fermare lo strapotere rosso nell’Italia liberata. Ma sarà un’esperienza breve, portata avanti per dovere: «pensavo come avrei riso di me stesso se, ai giorni della campagna di Russia, avessi potuto vedermi fare il comiziante in piazza».
Proprio mentre il diario inizia ad assottigliarsi inizia a nascere il Corti scrittore. Nel gennaio del ’47 iniziano i contatti con Garzanti per I più non ritornano. Corti scrittore è nato, si sente maturo. Ma il diario resterà. È stato conservato dalla vedova di Corti, Vanda di Marsciano, che compare nelle sue ultime pagine: «Si può dire che Vanda è ormai la mia fidanzata. Ciò mi dà un senso di tranquillità e d’equilibrio nella vita». Ora, trascritto dal nipote Mario Vismara con l’aiuto di Carlo Crespi, arriva a chiudere il cerchio narrativo di Corti, in un certo senso riportandolo all’origine. Alcuni brani dei diari sono comparsi in Il ricordo diventa poesia (sempre Edizioni Ares, 2017), ma ora nella loro interezza consentono di tracciare meglio i contorni del Corti uomo, di come la cronaca, la vita e la storia siano diventate letteratura. E ad impressionare è come la determinazione del Corti ventenne a scrivere si sia poi incarnata nell’uomo per tutta la sua vita. In un’intervista del 2009 ci diceva nella sua casa di Besana, acciaccato nel fisico ma ancora lucidissimo: «Mi trovavo nella valle della morte di Arbusov in mezzo ai cadaveri. E ho fatto un voto. Se mi fossi salvato avrei dedicato il resto della vita a mettere in pratica un versetto del Padre nostro: Venga il tuo regno. Insomma il voto di adoperarmi in difesa della bellezza e della verità. E quindi la verità per come ho potuto vederla ho cercato di scriverla». Voto adempiuto, a giudicare dai diari, anche prima di formularlo.
(Matteo Sacchi, 22/05/21, Il Giornale)