Scritti di Eugenio Corti – Milano dopo il bombardamento

Le cheval rougeBrano tratto da Il cavallo rosso – selezionato nel 2008 da Eugenio Corti per i lettori di questo sito. 

Il motocarro s’avviò imboccando la più larga delle strade: arrivato alla prima frana di macerie, che dal piazzale sembrava ostruire completamente il passaggio, si avventurò a passo d’uomo, sobbalzando e inclinandosi fortemente, sul suo margine più basso, ch’era stato spianato in modo sommario.

La medesima manovra si ripeté alle frane successive, in un’altalena continua.

Milano – l’ufficiale si rese conto – era ben più duramente colpita di quanto le notizie diffuse dalla radio facessero supporre.

Egli aveva addirittura l’impressione che neppure una casa fosse rimasta indenne. Molte, anzi moltissime, risultavano rase al suolo in cumuli informi di macerie: ancor più numerose erano quelle demolite solo in parte: sull’interno dei muri diroccati di queste si disegnavano a riquadri di diversi colori le pareti dei locali  scomparsi, su qualcuna c’era ancora un quadretto o un mazzo di fiori artificiali appeso de sghembo; si vedevano anche lembi di pavimento che sostenevano a mo’ di mensola qualche mobile, per esempio una sedia, un attaccapanni, oppure un letto di ferro a metà pencolante nel vuoto.

Le strade – anche le poche ch’erano già state in qualche modo ripulite – risultavano tutte senza eccezione cosparse di minuti frammenti di vetro, perché non un vetro pareva fosse rimasto integro; in qualche telaio di finestra se ne scorgevano degli avanzi con incollate sopra strisce di carta, secondo il suggerimento dato dalle autorità competenti. “Il nostro modo di fare la guerra” pensò amaramente il giovane, “la nostra risposta ai quadrimotori!” Rifletté tuttavia, con equanimità, che anche lassù nelle città inglesi da cui gli aerei erano partiti, dovevano esserci dei vetri rotti con le loro brave strisce di carta incollate sopra… Non provava per il nemico alcuna animosità: “È il modo di fare la guerra degli anglosassoni, inglesi e americani.” Lui li aveva conosciuti in Africa: Non potrebbero mai battere i tedeschi sul campo, però hanno senza confronto più macchine, specialmente aerei con cui possono distruggere le città e le retrovie avversarie, e le distruggono. Diversamente vincere non potrebbero, e alla lunga finirebbero con l’essere vinti.”

Ma radere al suolo le città italiane proprio mentre il nuovo governo stava sforzandosi in tutti modi d’uscire dalla guerra…

“Si vede che non si fidano del nuovo governo, che non ci credono. Così di noi italiani non si fidano loro, e non si fidano – a ragione – i tedeschi. In conclusione povera Italia!”

Strada dopo strada, sempre attraverso quell’uguale spettacolo di desolazione, in cui tuttavia si scorgevano parecchie squadre d’operai al lavoro, il motocarro arrivò in centro. Fece alt nell’impolveratissima piazza della Scala, dov’erano parcheggiati altri mezzi similari e un certo numero d’autocarri a cassone ribaltabile.

<< Vedete che situazione anche qui? >> disse, dopo essere sceso a terra, il geometra al tenente, indicando tutt’intorno.

La copertura a cupola del grande teatro, orgoglio della città, non esisteva più, era sprofondata, scomparsa. Della cinquecentesca mole di palazzo Marino, sede del comune, che fronteggia il teatro, rimanevano soltanto le mura annerite: tutto l’interno era franato, divorato dal fuoco. Quanto alla Galleria (‘il salotto di Milano’ come ricordò Manno) che collega piazza della Scala alla vicina piazza del duomo, era totalmente ostruita dalle sue grandi volte in ferro e vetro, cadute o pencolanti fino al pavimento.

<< Che bel servizio! >> mormorò il giovane, nel linguaggio con cui il soldati, non potendo sfuggirla, ricevevano ogni tempesta, fosse d’acqua o di fuoco.