Un romanzo con ben 32 edizioni

Il cavallo rossoLo studio di Cesare Cavalleri, direttore di Studi cattolici e critico letterario, negli uffici della casa editrice Ares, a Milano, che dirige, è foderato di libri e di ricordi. Ci sono foto con vari pontefici, Giovanni Paolo II su tutti, e anche un biglietto manoscritto di Dino Buzzati: «Fin da ragazzo», spiega Cavalleri, «ritagliavo tutti i suoi articoli e li incollavo su grandi album.

Fu lusingatissimo quando glieli mostrai. Lo intervistai un paio di volte, e nel 1970 gli chiesi un articolo per Studi cattolici. Lo mandò con quel biglietto vergato nella sua inconfondibile grafia: “Caro Cavalleri, va bene così? Arrivederci”». Siamo da Cavalleri, di Treviglio (Bg), classe 1936, per parlare dell’eterno caso letterario che, in questi uffici, vide la luce nella primavera del 1983: Il cavallo rosso di Eugenio Corti, opera pluritradotta e pluriesaltata dalla critica straniera, e a lungo misconosciuta in Italia ma che oggi si vende come il burro su Amazon. Una straordinaria vicenda umana, una saga familiare, che abbraccia un trentennio, dalla Seconda guerra agli anni ’70.

Cavalleri, Il Cavallo rosso continua a vendere, malgrado il suo autore sia scomparso due anni e mezzo fa.
Continuiamo a ristamparlo, annotando le riedizioni, come ha sempre chiesto lui. Siamo arrivati alla 32a. E stiamo lavorando all’archivio, che Corti ha voluto andasse alla Biblioteca Ambrosiana. Il nostro Alessandro Rivali sta lavorando sugli appunti della ritirata di Russia. E poi ci sono le lettere scambiate, da fidanzati, con la moglie, Vanda di Marsciano, con la quale ha avuto un rapporto profondo e intenso, non privo anche di momenti burrascosi, perché erano entrambi caratteri forti.

A gennaio c’è stato un grande convegno su Corti, alla Sorbona. Perché la Francia lo ha sempre amato?
Merito di François Livi, italianista nell’antico ateneo parigino, che ha tradotto molte cose di Corti e ha avuto il pregio di farlo conoscere.

Ricordo potenti recensioni de Le Figaro.
Infatti. Livi ha dato alle stampe di recente Italica, una storia della letteratura italiana, il cui sottotitolo è da Dante a Eugenio Corti.

Come vi conosceste, con Corti?
Nel 1974, perché ci ritrovammo entrambi nel comitato per il “Sì” alla abrogazione della legge Fortuna, quella che aveva introdotto il divorzio. Ci presentò Gabrio Lombardi, il grande giurista che animò il comitato a livello nazionale, chiedendoci un impegno per la Lombardia. Corti entrò nel direttivo.

Corti vi si impegnò ventre a terra.
Ci improvvisammo conferenzieri, per mesi percorremmo la Lombardia in lungo e in largo, a difendere la famiglia. Bei tempi, una stagione pugnace. Finita male. Il Cavallo lo cominciò più o meno allora: un lavoro durato un decennio.

Figlio di imprenditori del tessile in Brianza, a un certo punto decise di dedicarsi solo alla scrittura.
Aveva i mezzi per poterselo permettere, anche se viveva in modo straordinariamente sobrio, alla brianzola potremmo dire. Anzi, fra le lettere che abbiamo trovato, ce n’è una al padre, mai spedita ma scritta quando lui era ufficiale sul fronte russo. Avrebbe dovuto essere una risposta alle preoccupazioni del genitore che chiedeva al figlio d’essere un po’ più concreto, ossia di pensare meno alla letteratura. E Corti preparò una risposta in cui diceva: «Non tentate di tarparmi le ali».

Che per gli anni ’40, era effettivamente una rarità. Cavalleri, lei aveva intuito che potesse produrre un’opera di quel genere?
Eugenio aveva scritto I più non ritornano, il primo racconto sulla ritirata di Russia, pubblicato da Garzanti nel 1947, con buon successo. Benedetto Croce ne aveva dato un giudizio positivo, così come Mario Apollonio, titolare della prima cattedra di Storia del Teatro, in Cattolica. Ma certo non immaginavo che potesse tirar fuori quelle 1280 pagine. Sapevo che scriveva: ogni tanto diceva, a me o ad altri amici: «Ti ho messo nel libro». E infatti, nel periodo degli anni ’70, ci siamo in molti.

E poi, attorno ad Ambrogio Riva, il protagonista, ci sono molti personaggi storici, da padre Agostino Gemelli a Palmiro Togliatti, da don Carlo Gnocchi a Nilde Jotti.
Sì, perché gli anni del Dopoguerra, nel libro, sono un po’ una cavalcata nell’attualità sociale e politica del tempo.

E dunque Corti se ne uscì con un mega manoscritto. Non provò a pubblicarlo altrove?
Andò da Garzanti, dove si spaventarono per la lunghezza. Sa, anche solo stampare tutte quelle pagine, il volume sarebbe costato 40mila lire, all’epoca. Venne da noi che non avevamo mai pubblicato narrativa, ma solo saggi.

Non ci fu la congiura editoriale, il boicottaggio dello scrittore cattolicissimo, come è stato scritto?
Se proprio devo dirle, mi pare una leggenda. Dico che è vero il 20% di quel che si è detto negli anni.

Però c’è stata certamente quella della critica: pur essendo tradotto in molti paesi, in Italia era poco o punto recensito.
Beh quella è la stupidità della critica, non la cattiveria. Per essere cattivi bisogna essere intelligenti, i più pericolosi sono gli imbecilli. Comunque ci fu chi lo recensì, l’Eco della Stampa, negli anni, ci ha riempito di ritagli. Se, chessò, quelli di Repubblica non hanno mai recensito Il Cavallo, peggio per loro. Peraltro il giornale, allora diretto da Ezio Mauro, scrisse un bell’articolo in occasione della sua scomparsa.

Torniamo alla sua decisione di pubblicarlo. Come scaturì?
Era l’estate del 1982, ero in vacanza al Castello di Urio, sul Lago di Como. Lessi d’un fiato il corposo manoscritto e scrissi subito una lettera a Eugenio, dicendogli d’essermi commosso davanti alla grandezza di quel lavoro. Il libro uscì nel maggio 1983 e non abbiamo smesso di ristamparlo.

Cesare CavalleriSi può sapere quante copie?
Un calcolo difficile, perché è entrato anche nel Club dei Lettori della Mondadori e anche Famiglia Cristiana, delle Edizioni San Paolo, l’ha pubblicato in tre volumi allegandolo al settimanale. Comunque diverse centinaia di migliaia di copie, per certo.

Nessun grande editore ve lo ha chiesto?
No, credo davvero per il limite della lunghezza. Proposi a Ferruccio Parazzoli, storico editor di Mondadori, oltre che saggista e scrittore, di pubblicarlo negli Oscar, ma anche lui, che è un amico, mi fece la stessa obiezione. Peraltro Parazzoli propiziò l’uscita con le Edizioni San Paolo.

Corti era lieto di questo successo, seppure sottotraccia?
Eugenio era interessato alla posterità, voleva fare un lavoro che restasse, che raccontasse qualcosa alle generazioni che sarebbe arrivate dopo.

C’è riuscito.
Certamente, se lei prende i vincitori dei premi letterari di più lunga tradizione, troverà dei nomi che le risulteranno sconosciuti. Glorie effimere. Oggi neppure Moravia è molto letto (ed è buona cosa); resistono Buzzati e pochi altri.

Ricorda qualche presentazione che avete fatto assieme?
Molte, al Meeting di Rimini, per esempio, era di casa. A Corti piaceva dedicare il libro, non semplicemente autografarlo, per cui chiedeva il nome e poi vergava una dedica personalizzata. Morale, poteva impiegarci anche qualche ora. L’autore ideale per ogni editore.

Qual è la cifra di questo grande romanzo.
La cifra è il suo grande valore letterario, fuori da ogni scuola; Corti è uno scrittore realista, di un realismo luminoso. Il Cavallo, inoltre, è un libro tutto vero, uno spaccato di vita assolutamente fedele. E il tempo ha fatto inevitabilmente giustizia.

La Brianza sta al centro.
Un mondo e una religiosità che non ci sono più, cancellati. L’inizio della fine fu proprio quel referendum che, come ci spiegava Lombardi, sarebbe stato il sasso destinato a diventare valanga.

Beh, è la storia d’Italia.
Sì, ma sulla Brianza ho un giudizio, se vuole, un po’ duro.

Vale a dire?
I fatti successivi fanno quasi dubitare dell’autenticità di quella religiosità raccontata anche da Corti. Era costume più che fede profonda, moralità più che vita teologica. Più che un incontro con Dio, era un incontro col prete e con la messa.

Perché Il Cavallo rosso è un libro che va letto, ancora oggi?
Perché è un libro storico, quindi ha la funzione dei libri di storia. Qualcuno l’ha accostato a Guerra e Pace: anche Lev Tolstoj, da storico, racconta l’assedio di Mosca, ma il romanziere esprime anche i caratteri dei personaggi, gli incontri, la vita: per questo è un libro immortale. Ne Il Cavallo Corti ha fatto lo stesso in quarant’anni di storia italiana, dal 1938 al 1975, con i fatti storici e una grande qualità letteraria.

Ci sono in giro altri Corti?
Mah, l’Italia nel ‘900 non ha prodotto romanzi ma racconti lunghi, se si eccettua Il Mulino del Po di Riccardo Bacchelli, peraltro dimenticato. Viceversa è stato un secolo di grande poesia.

Le obietteranno che grandi romanzi ci sono stati. Chessò, Italo Calvino.
Sì, ma io credo che Calvino non sia mai andato oltre le 300 pagine: esilini, come romanzi. Forse è anche la nostra lingua che s’attaglia di più al racconto che al romanzo.

Corti a chi si ispirava?
Ah, lui voleva essere alla scuola di Omero: decise di essere scrittore al liceo, leggendo il grande narratore ellenico. Amava, diceva, il suo modo di far passare la vita nella pagina.

Negli ultimi anni, sorse anche un comitato per assegnargli il Nobel.
Corti era da Nobel, intendiamoci. Ma quell’iniziativa fu ingenua nei metodi: il Nobel non si propone con le pagine Facebook e gli appelli pubblici. La cosa era nata a Monza, provincia istituita da poco, che sentiva l’esigenza di avere un grande contemporaneo. Peraltro quell’impegno ha avuto il merito di ampliare la conoscenza dell’opera di Corti.

Senta, Corti ha avuto un rapporto difficile con l’Università Cattolica, che non l’ha mai riconosciuto come scrittore.
Ebbe un rapporto d’amore e d’odio. Le era legato, perché era l’ateneo dei cattolici e ci si era laureato in Legge, ma questa scarsa considerazione lo feriva. Qualche anno fa, sembrava che ci potesse essere la laurea honoris causa in Lettere. Era tutto pronto, ma poi alcuni docenti si opposero. Però mi faccia aggiungere una cosa.

Prego.
Nel giugno scorso l’ateneo di Largo Gemelli ha ospitato un grande convegno curato dalla biografa, Paola Scaglione, e dal professor Giuseppe Langella.

Che tipo di cristiano è stato?
Di una fede granitica, di una religiosità tradizionale. Ha vissuto con qualche disagio la fase del post-Concilio, soprattutto la riforma liturgica, come scrisse ne Il fumo nel tempio.

Che si agganciava alla famosa frase di Paolo VI sul fumo di Satana che pareva essersi insinuato in Vaticano da una fessura.
Dovremmo ripubblicarlo presto. Corti s’arrabbiava per certe esasperazioni, come l’iniziale abolizione della festa di San Giorgio. Ma come, chiedeva, il patrono d’Inghilterra lo cassiamo?

Senta Cavalleri, ma oggi con Papa Francesco, Corti come si sarebbe trovato?
L’avrebbe preso bene. Era quel tipo di cattolico per cui il Papa non si discute.

(Goffredo Pistelli, 22/07/16, ItaliaOggi)