Uso delle fonti classiche nell’interpretazione cortiana di Catone
Il Catone di Eugenio Corti è articolato in scene ed episodi, in ossequio a un’idea di «romanzo per immagini» che sia fortemente icastico per il lettore: ma questa scelta inerente alla struttura e all’articolazione del racconto è anche motivata dalla considerazione dell’importanza del genere teatrale nella cultura latina del III-II sec. a. C.: la letteratura latina, infatti, nasce con il teatro (con la rappresentazione di una fabula) nel 240 a. C., e la poesia drammatica, tragica, sia di argomento mitologico greco (fabula cothurnata) sia di argomento storico latino (fabula praetexta), e comica (nella sua duplice articolazione di fabula palliata e fabula togata) rappresentano un genere letterario profondamente iscritto nelle coordinate e, per così dire, nel Dna romano.
Eppure, paradossalmente, Catone è un autore che alla poesia non si è mai dedicato, men che meno la poesia scenica: con Catone nasce la prosa latina, storiografica (le Origines), e didascalica, con una forte componente ideologica (con il De agri cultura).
Il «romanzo» di Corti ricostruisce un Catone «possibile e plausibile»; l’immagine dura e refrattaria a ogni lusso che Catone il Censore stesso ha lasciato di sé si riflette nelle pagine di Corti e dà origine a un personaggio severo, ma non burbero. Viceversa, il Catone ricreato dallo stilo di Cicerone nel Cato Maior de Senectute nel I sec. a. C., che è la figura forse più nota, ha con il modello originale solo qualche labile legame. Il Catone di Cicerone è un Censore addolcito nei tratti caratteriali: nel «suo» Catone, infatti, Cicerone mira a rappresentare una vecchiaia attiva e operosa, che possa rappresentare un modello da consultare con reverenza per i giovani, perché, in primis, è Cicerone stesso, quando si accinge alla composizione del Cato Maior, a sentirsi «vecchio», emarginato dal gioco politico: non dimentichiamo che siamo negli anni brucianti del dopo Pompeo, con Cesare dittatore a vita che imperversa, e Cicerone marginalizzato dal gioco politico, messo in disparte della vita pubblica, afflitto dalla morte dell’amatissima figlioletta Tullia, dal divorzio da Terenzia, dal successivo matrimonio, fallimentare e di brevissima durata con una giovanissima ereditiera. Il Catone ciceroniano, quindi, è proiezione dei desideri di Cicerone stesso, e riflette la sua aspirazione a una vecchiaia ancora operosa e attiva (Cicerone aveva compiuto da poco i sessant’anni, data convenzionale per l’ingresso nella senectus), lungi dalle colpevolizzazioni e dai pregiudizi stereotipati di cui era vittima, come pure – argomento del coevo Laelius de amicitia – di un’amicizia che fosse non solo legame utilitaristico di alleanza politica, determinata da finalità analoghe, ma vincolo moralmente e affettivamente fondato, naturale vagheggiamento di un uomo che si sentiva ormai isolato, fallito politicamente e abbandonato da tutti i suoi precedenti alleati.
Il volume di Corti ricostruisce di Catone i faticosi inizi dell’attività politica, a partire, molto correttamente, dall’attività forense: non dimentichiamo che il Censore fu un oratore (orator, ovvero, uomo politico che, come tale, faceva del parlare in pubblico un cavallo di battaglia della sua azione pubblica) molto apprezzato, annoverato fra i maggiori di Roma e di cui circolavano più di cento orazioni. Di esse ci restano oggi solo pochi frammenti, raccolti in Enrica Malcovati (ed.), Oratorum Romanorum Fragmenta, Torino 1976, 4 ed., mentre, per quanto riguarda l’orazione più celebre, quella a vantaggio degli abitanti di Rodi, cfr Gualtiero Calboli, Oratio pro Rhodiensibus, Bologna 1978. Nel romanzo (cfr pp. 66-68) il giudice davanti a cui Catone perora la sua causa resta favorevolmente impressionato dalla sua capacità sorgiva e nativa di patrocinare, e si propone di dargli lezioni in merito, a titolo gratuito, ovviamente, come è sempre svolta ogni attività che davvero conti in Roma.
A Catone oratore viene attribuito il detto Rem tene, verba sequentur: «Tieni ben saldo l’argomento, e le parole verranno da sé»: eppure, questo, lungi dall’essere un invito a eliminare ogni forma di retorizzazione del discorso, è piuttosto un invito alla naturalezza dell’actio, quella naturalezza che deve far apparire il discorso spontaneo e dotato di forza sorgiva, pur se esso è stato attentamente e accuratamente elaborato.
Uno dei grandi successi storici di Catone oratore fu l’Oratio pro Rhodiensibus, gli abitanti dell’isola che Roma voleva punire per la sospetta collusione con il re macedone Perseo durante la terza guerra macedonica, conclusa con la vittoria romana di Pidna (168 a. C.). Nel fr. 163 Malcovati, Catone, coerentemente con il suo carattere alieno da ogni eccesso, invita i suoi concittadini alla moderazione, mentre nel 166 li mette in guardia dalla facile tentazione a istituire «processi alle intenzioni».
Il profilo del Catone di Corti pare tenere conto, essenzialmente, oltre che delle opere di Catone stesso, anche di due storici antichi: il profilo antico di Catone delineato da Tito Livio (39, 40, 3-11), e, soprattutto, la Vita n. 24 della raccolta di Cornelio Nepote, Vite dei massimi condottieri (Bur, Milano 1989, a cura di E. Narducci, trad. di C. Vitali).
Il romanzo di Corti mantiene la «pluralità» nepotiana del personaggio, che si rivela nella sua poliedricità, ma l’autore moderno riesce a conferire al suo Catone l’antico un tratto unificante che dà armonia alla figura del protagonista: ossia, la sobrietà estrema, nei comportamenti, nel rapporto con i beni materiali, financo negli affetti; ciò conferisce al romanzo una nobile, austera, scabra semplicità, che è poi l’intima essenza nella produzione letteraria (storiografica, tecnico-didascalica, retorica, didattico-moralistica) cui si rivolse il Censore (cfr nella Scena 57, p. 121 sgg. i tentativi, falliti, dell’Usuraio e del Banchiere, di scalfire l’adamantina onestà di Catone).
In vecchiaia, Catone si dedicò alla prosa storiografica: la sua grande opera in sette libri, le Origines, raccontava le origini di Roma, e delle città italiche, fautrici anch’esse, con la loro fedeltà, della grandezza dell’Urbe negli anni difficili della Seconda Guerra Punica e dell’invasione annibalica.
Accanto alle Origines, centrale è per Corti l’altra grande opera, giuntaci in forma assolutamente frammentaria, nella quale si condensava il senso più profondo del vivere secondo Catone: il Carmen de moribus. È scritto nell’antico verso saturnio: la polemica contro «gli esametri d’origine greca» è, essenzialmente, polemica contro Ennio, il grande poeta di origine Osca che, paradossalmente, Catone stesso portò a Roma, e che divenne il cantore della gloria militare e politica dei grandi condottieri (l’Africano, Marco Fulvio Nobiliore, etc.), introducendo nel mondo latino l’esametro, cioè la musicalità della grande poesia epica.
Ma l’elemento più tipico del Catone storicamente esistito è il suo radicamento nella forma mentistradizionale dell’agricola romano, anzi, latino: interessante è, infatti, la tenace difesa con cui, in modo, possiamo dire oggi, lungimirante, Catone si fece fautore e difensore dell’assetto socio-economico tradizionale romano, e cioè della piccola e media proprietà, organizzata per unità produttive, le cosiddette villae. Il cittadino romano, nella mentalità tradizionale, è infatti contadino (sulla sua proprietà) in tempo di pace e soldato in tempo di guerra; ma i decenni ininterrotti di guerre dell’età delle conquiste (III-II sec. a. C.) stravolsero ben presto l’assetto tradizionale di Roma.
Catone aveva capito benissimo che tale assetto sarebbe perdurato, nel suo equilibrio, finché non si fosse spezzato il nesso fra possesso delle terre/pratica dell’agricoltura in prima persona/cittadinanza/attività militare.
La sobrietà estrema del Catone storico, un tratto di durezza austera che Eugenio Corti recepisce bene, e che gli sembra consonante con una certa forma mentis contadina e, in senso più lato, provinciale tipica della provincia lombarda, della sua Brianza, ha un fondamento preciso in una solida concezione storico-politica che mirava a mettere in guardia i Romani contemporanei dalle facili ubriacature per la ricchezza facilmente conquistata e per un benessere che non doveva diventare pernicioso e disgregante per la comunità (un messaggio sempre presente in Corti, cfr la terza parte del Cavallo Rosso). In effetti, Catone aveva visto chiaramente l’onda lunga della crisi che ben presto avrebbe travolto Roma. Infatti, i piccoli e medi proprietari, perennemente impegnati in armi (non esisteva un esercito di professionisti o di mercenari: i soldati erano soldati in quanto cives, e cives in quanto soldati) in guerre di conquista nei Paesi affacciati sul Mediterraneo, dove Roma si stava espandendo, lasciavano, invariabilmente, trascurati i loro poderi; poi, sommersi dai debiti, erano costretti a venderli ai grandi nobili, dalle cui famiglie venivano scelti i duces, i condottieri delle guerre di conquista, che diventavano capi carismatici; in parallelo, si formavano i grandi latifondi, e la forbice fra i ricchi, sempre più ricchi, e i poveri, sempre più poveri, si apriva sempre più. Inoltre, una folla di diseredati, fautrice in potenza di disordini sociali e pronta a essere sfruttata come massa di manovra per le competizioni politico-elettorali dei grandi nobili, si riversava in Roma. Una risposta parziale a questa crisi venne tra la fine del II e l’inizio del I sec. a. C., quando Mario, lo zio di Cesare, consentì l’arruolamento ai capite censi, cioè ai nullatenenti: ma questo autorizzava, di fatto, la costituzione di un esercito di professionisti, i quali non combattevano più per spirito di dedizione per la patria, Roma, per la collettività, ma si sentivano invece legati al loro capo. Di fatto, Catone, ancora una volta, aveva visto giusto.
(Cesare Cavalleri, maggio 2016, LineaTempo)