Un affresco sui giorni da non dimenticare

Il cavallo rosso - edizione romenaPotrebbe essere uno dei cavalli dell’Apocalisse. Ha attraversato le sterminate nevi della Russia, i lager sovietici, dove i prigionieri muoiono lentamente di fame, dove impazziscono per la fame, sino al cannibalismo. Ha assistito a deportazioni in massa di donne e bambini, a fucilazioni indiscriminate, a poveri oggetti, trascinati nell’abiezione delle proprie miserie fisiche, privi di tutto, perfino della possibilità di ragionare, di ricordare, e viene a portarci un avvertimento necessario, una testimonianza da non dimenticare, il messaggio della Fede cristiana, il solo muro valido contro la barbarie che ci minaccia.

Il cavallo rosso viene soprattutto a salvarci dai fantasmi che ci accerchiano da ogni parte, i fantasmi dell’astrazione che, alterando il disegno della realtà, annebbiano la coscienza sino a dare vita a falsi idoli. Che cosa è il vaneggiare del linguaggio, dell’arte, se non il compiacersi nell’astrazione, e che cosa sono le ideologie che si presentano tra nuvole di nobili promesse, di sentimentalismi addirittura, e che quando si concretano significano sterminio, crudeltà, schiavitù, pazzia?

Il cavallo rosso, il libro di 1280 pagine di Eugenio Corti, edito di recente dall’Ares, è tutto concretezza; anche la Fede si concreta nelle creature, com’è giusto: Cristo si è incarnato. La concretezza è il pregio grande di questo romanzo, è il segreto della sua presa sul lettore, della evidenza dei suoi personaggi che amiamo come creature vive. E anche del suo potere di evocare, anzi di comunicare a chi legge, l’ansia e l’angoscia del terribile tempo da cui sembrava non si potesse uscire.

Un libro del tutto inatteso nella narrativa odierna, che di solito si estenua nell’autobiografia. Il cavallo rosso ha avuto in pochi mesi due edizioni; non contiene né una parola di retorica, né compiacimenti morbosi: non vi si parla di sesso, non vi si scambia il bianco per il nero, e così testimonia ciò che il lettore veramente desidera e cerca.

Quando Eugenio Corti s’è accinto all’impresa, quando ha scritto in capo al foglio bianco, “Parte prima, Capitolo primo”, già doveva, avere in mente, chiaro, il lavoro che lo attendeva, e soprattutto il significato che esso doveva avere: essere un muro contro la barbarie che minaccia la civiltà occidentale; informare, far conoscere quali sono i pericoli del tempo. Lo dimostra anche l’attacco placido dell’apertura, proprio di chi vuole prendere spazio e tempo per ciò che gli preme dire, raccontare. Per così decidere, Eugenio Corti deve possedere in sé quello che Teresa d’Avila definiva “il castello interiore”, ben costrutto, saldo, illuminato da una luce che non vacilla.

Sono decine d’anni di storia d’Italia, non esposta secondo le regole dei testi scolastici o dei saggi filosofici, ma intessute alla vita degli italiani, di coloro che pagavano con la vita, con le sofferenze e gli strazi, gli sbandamenti, le complicazioni della politica. Storia dolorosissima. L’autore nel suo rapporto, che meglio non lo si potrebbe definire, ha evidentemente letto e riflettuto su una grande quantità di documenti; ma la storia dei lager, la spaventevole sequela dei giorni e delle notti fra gli agonizzanti, i morti col petto squarciato dai compagni pazzi per fame, per sfinimento, i quali ne avevano tolto il fegato, per cibarsene, sembra ottenuta in presa diretta. La figura del prete che affronta gli sciagurati per dissuaderli, domandando ai più inferociti: “Che fa tua madre in questo momento? Ci pensi a tua madre?”. E dell’altro prete agonizzante, che i compagni sollevano dal giaciglio, sorreggendolo in piedi perché dia a tutti loro, essi pure in fin di vita, l’assoluzione in articulo mortis, non possono essere inventate.

É la parte più bella, forse. Poi il ritorno in patria di alcuni, nelle famiglie, e la storia dell’Italia in pezzi. Il governo-fantasma legale nel Sud, i gruppi dei partigiani divisi tra loro, che fra loro si contrastano, preannuncio dei vari partiti per il “dopo”. La popolazione disorientata, impaurita, preda di ambiziosi grandi e piccoli, di una bestialità cui è stata data via libera. Ma anche con alcune figure semplici ed eroiche. Tutto ciò reso con equanimità e dolente amore di patria, con vigile carità cristiana.

Poi la vita riprende nella sua concretezza. Il libro non si può definire romanzo; io lo direi “rapporto”. Nella chiarezza della sua scrittura, del suo pensiero, l’autore vuole renderci integralmente l’uomo: né tutto angelo, né tutto bestia, creatura di terra, destinato a tornare alla terra, ma non per sempre, animato com’è da un soffio divino che rende tutto, intorno a lui e in lui, tragico e misterioso. Di questo richiamo, della concretezza e nobiltà del suo raccontare, della sua valida difesa contro i fantasmi, dobbiamo essere profondamente grati all’autore del Cavallo rosso.

V’è l’epica, e v’è l’idillio, vi è lo spavento, e l’umorismo. Chiuso il libro, ci sembra di accomiatarci da persone conosciute, da un tempo pieno di voci, di invocazioni, di orrori che non è abbastanza lontano.

Purtroppo.

(Orsola Nemi, gennaio 1985, Prospettive Libri)