Lo sterminio dei contadini kulaki

Processo e morte di StalinAffermano Voegelin e Del Noce che “è emerso nelle nostre società moderne un fenomeno nuovo, il divieto di fare domande, come consapevole, deliberata, e sapientemente elaborata ostruzione della ratio; da non confondere con la semplice resistenza all’analisi, fenomeno di tutti i tempi” (1).

Senza dubbio tra le domande che oggi è più severamente vietato fare ci sono quelle relative a certe imprese compiute dai comunisti là dove hanno preso il potere. In particolare non si deve pretendere di sapere cos‘è oggettivamente accaduto in Russia durante la ‘dekulakizzazione’, o eliminazione dei contadini piccoli proprietari, categoria grosso modo corrispondente ai nostri ‘coltivatori diretti’.

Di questo tragicissimo episodio (che nell’ambito della lotta di classe in Europa, corrisponde per più aspetti alla ‘soluzione finale’ nazista del problema ebraico nell’ambito della lotta razziale), ancora troppo poco si conosce in Occidente.

Nella stessa Russia questa dei contadini, che fu la ‘repressione’ maggiore di tutte, è la meno conosciuta, in quanto se ne parla poco anche nelle pubblicazioni che escono alla macchia, le quali finiscono spesso con l’occuparsi in modo sproporzionato delle “ingiuste repressioni” dei comunisti “innocenti”, “che mai avevano pensato a tradire”. Ciò perché su queste ultime il potere sovietico ha sollevato la cortina del silenzio, e non vieta del tutto di “fare domande”. Abbiamo sufficienti informazioni anche intorno agli eccidi degli altri gruppi sociali che avevano cooperato alla costruzione della società socialista, come i dirigenti dell’industria statale, gli scienziati, i letterati, la gente di cinema, i quadri dell’armata rossa, i rifugiati comunisti stranieri (2), e così via. Della repressione dei contadini sappiamo invece addirittura meno di quella delle classi considerate dalla teoria leninista più propriamente sfruttatrici, come nobiltà, borghesia, clero.

È indicativo al riguardo prendere in esame i dati numerici contenuti nelle tre opere più documentate e sistematiche di cui si disponga oggi sui fatti di Russia. Ci riferiamo allo studio di Robert Conquest (3) docente della Columbia University, a quello non meno fondamentale effettuato in Russia da Roy A. Medvedev (4) dell’Accademia di scienze pedagogiche di Leningrado, nonché all’ultimo libro pubblicato da Aleksandr Solgenitsin (5).

Conquest, pur riportando la tristemente nota dichiarazione fatta nel 1942 da Stalin a Churchill, di dieci milioni di contadini sacrificati (6), si trova in difficoltà a darne la documentazione, e conclude con un riepilogo finale di 7 milioni di morti: di cui circa “3.500.000 perirono nella collettivizzazione”, mentre “un numero analogo fu mandato nei campi [di deportazione – n.d.r.] dove virtualmente morirono tutti negli anni che seguirono” (7). Per quanto terrificanti, i due dati sono — come vedremo — lontani dalla realtà; il secondo è anche inesatto quanto alla meta della deportazione, che non poté essere in campi o lager, perché nel 1930 i lager sovietici (che dovevano in seguito moltiplicarsi a dismisura) non erano ancora in grado di contenere un tale numero di persone. Più documentato riesce Conquest nelle ricerche intorno al numero dei decessi provocati dalla carestia che seguì all’eccidio dei contadini, decessi che egli computa in 5.500.000 “per fame e per malattie causate dalla fame” (8).

Passiamo a Roy Medvedev, tuttora di fede comunista (non accusa il sistema, bensì Stalin, dopo che suo padre, ‘comunista fedele’, fu “uno dei 400.000 comunisti caduti vittime, nel 1937, delle purghe staliniane”) (9).

Mentre è documentatissimo nelle ricerche relative appunto alle categorie ‘fedeli’, per le quali non si accontenta certo delle cifre ufficiali, Medvedev si limita per i contadini a riportare i dati presentati al plenum del Comitato centrale del partito nel gennaio 1933, in particolare quello di 240.757 famiglie di kulaki (cioè, egli spiega, “da uno, a un milione e mezzo di persone”) “esiliate nei più remoti rajony [ossia territori]” e commenta semplicemente: “Ci sono buone ragioni per credere che tali cifre siano al di sotto della realtà” (10). Vero che studiando poi la resistenza alla collettivizzazione da parte dei contadini dei due strati inferiori, riporta un secondo dato governativo: “In alcuni rajony più del 20 per cento dei contadini furono banditi; per ogni kulak neutralizzato, tre o quattro contadini ‘medi’ o ‘poveri’ vennero arrestati anch’essi” (11). Non indaga però quanti siano stati questi rajony o territori, e quale dunque la portata del fenomeno (anche se, il tuttora comunista Medvedev, più avanti nel suo studio mostra di non ignorare che le famiglie contadine deportate furono “milioni”) (12).

Neppure indaga sulla carestia, in merito alla quale ricorda che “centinaia di migliaia di contadini, forse perfino milioni, lasciarono i loro villaggi per accorrere nelle città” (13). Soltanto di questo fenomeno egli, cittadino, sembra dunque aver avuto adeguato sentore. In realtà Medvedev, ai cui occhi i kulaki costituivano “l’ultima classe di sfruttatori” (14) rimasta in Russia al principio degli anni Trenta, prende in esame la vicenda contadina soprattutto per studiarne gli aspetti e i risvolti economici; nel che è maestro, e noi ce ne avvarremo nei presenti appunti.

15 milioni di uomini morti nella tundra
Veniamo a Solgenitsin (15). Pubblicando più tardi degli altri due, e disponendo di più ampia documen­tazione, egli è in grado di darci il numero, che dovrebbe essere definitivo, dei contadini eliminati, e di spiegarci anche perché di una cosi smisurata vicenda conosciamo tanto poco: “La fiumana [delle deportazioni – n.d.r.] degli anni ‘29-’30… spinse nella tundra e nella taiga un quindici milioni (e forse più) di contadini. Ma i contadini sono un popolo privo di favella, privo di scrittura, non scrissero lamentele né memorie. I giudici istruttori non faticavano con essi di notte, non sprecavano verbali: bastava una delibera del Soviet rurale. La fiumana si riversò, fu assorbita dal ghiaccio eterno, e neppure le menti più focose la ricordano. È come se non avesse neppure ferito la coscienza russa. Eppure Stalin (come io e voi) non commise crimine più grave” (16).

Potremmo aggiungere dati ancora diversi di altri autori, ma già la disformità di questi che abbiamo esposto, basta, ci sembra, a dimostrare quanto poco sistematicamente la tragedia dei contadini sia stata finora indagata, e quanto sia necessario che altra luce vi sia fatta. Ciò non solo per l’indispensabile presa di coscienza di cui parla Solgenitsin, ma anche per il motivo pratico di scongiurare — per quanto possibile — il ripetersi di simili tragedie apocalittiche, soprattutto dopo che altre analoghe si sono verificate in Cina in anni molto più vicini (17).

Ovviamente una ricerca adeguata sulla ‘dekulakizzazione’ non potrebbe che essere opera di una equipe di ricercatori, possibilmente russi (pensiamo qui alla neonata rivista Kontinent).

Procediamo intanto nei nostri appunti. Anzitutto chi erano i kulaki? Lo si comprenderà meglio se si ricorda che i comunisti, per farsi alleati i contadini durante la guerra civile, non avevano socializzate le aziende tolte agli ex latifondisti e proprietari terrieri (18), ma le avevano frazionate e distribuite in proprietà a chi lavorava la terra. Costoro, insieme ai preesistenti contadini piccoli proprietari, erano stati poi — del tutto teoricamente — suddivisi in tre categorie sulla base di determinati parametri, principale tra i quali il fatto che si facessero coadiuvare o no da mano d’opera salariata. Lo strato più elevato era costituito appunto dai kulaki, che usavano assumere mano d’opera, e rientravano quindi tra gli ‘sfruttatori’; il più basso dai contadini ‘poveri’ (byednyaki), che pur essendo piccoli proprietari si prestavano anche come braccianti (‘sfruttati’); c’era infine la categoria intermedia dei serednyaki, o contadini ‘medi’, che né assumevano mano d’opera, né lavoravano per altri. (Ricaviamo questo prospetto sintetico da Isaac Deutscher) (19).

Va da sé che nella pratica (20) le cose erano ben più complesse: così il già citato Medvedev riferisce che non soltanto i contadini medi, ma anche i contadini poveri usavano assumere braccianti in caso di necessità (21); del resto l’assunzione di mano d’opera agricola non era vietata dalle leggi sovietiche, anzi una legge del 1925 l’aveva facilitata (22). Per quante riguarda la consistenza numerica delle tre categorie, ci imbattiamo in dati disformi (23). Stando ancora a Deutscher, nel 1928 i capi famiglia kulaki erano tra un milione e mezzo e due, quelli contadini medi da quindici a diciotto milioni, e i poveri da cinque a otto milioni: in totale esistevano circa venticinque milioni di famiglie di contadini individuali (24).

Pochi anni più tardi contadini individuali in Russia non ne esistevano praticamente più. Alla collettivizzazione della terra si era pervenuti attraverso due fondamentali fasi repressive: anzitutto l’eliminazione totale dei kulaki (coi loro famigliari, circa dieci milioni di individui); in secondo luogo lo ‘scatenamento della violenza’ anche sui ‘subkulaki’, ossia su quei contadini medi e poveri che si rifiutavano di cedere i propri campicelli. In pratica le due fasi si sovrapposero: noi però le descriveremo separatamente, avvertendo il lettore che — al fine di renderle con sufficiente completezza — esamineremo di ciascuna sia i precedenti ‘teorici’ (tanto cari ai comunisti), sia gli aspetti umani, riferendo cioè che cosa accadde effettivamente nei villaggi.

Le motivazioni teoriche di uno sterminio
Nell’ambito economico va tenuto presente che in seguito alle liberalizzazioni introdotte da Lenin con la N.E.P. (Nuova politica economica) la capacità di acquisto della popolazione era sensibilmente aumentata (nel solo 1927 del 20 per cento) mentre — per le scelte dei piani — la produzione dei beni di largo consumo era nel contempo cresciuta in proporzioni minime (nello stesso 1927 tra l’1 per cento e il 2 per cento) (25). Alla fine di quell’anno i contadini (che pure, dopo la rivoluzione e la guerra civile, abbisognavano di tutto) non sentivano dunque urgenza di vendere i loro prodotti, in quanto col denaro ricavato non avrebbero saputo che cosa acquistare; erano in particolare poco invogliati a vendere allo stato — che aveva il monopolio del commercio delle granaglie — il loro prodotto principale, il grano, per il quale ricevevano un prezzo pari all’89 per cento di quello di mercato del 1913 (per il lino e la canapa ricevevano un prezzo pari al 146 per cento, per il bestiame pari al 178 per cento, sempre in riferimento al 1913, ultimo anno prebellico) (26).

Molti contadini avevano perciò deciso di non vendere il grano fino a primavera, sperando che il suo prezzo lievitasse. Così nel gennaio 1928 il governo sovietico si trovò ad avere acquistato (per il fabbisogno delle città) solo 300 milioni di pud di grano, contro i 428 del gennaio 1927. In tale situazione, anziché attenersi alla logica liberale della N.E.P. e rendere interessante per i contadini la vendita del loro grano, Stalin il 6 gennaio 1928 ne ordinò la confisca, e diede contemporaneamente inizio allo ‘scatenamento della violenza’ nelle campagne per spaventare i kulaki, i quali erano, proporzionalmente, la categoria che disponeva di più grano vendibile. Il risultato fu che molti di essi ridussero le semine primaverili, e altri si spaventarono al punto di ‘autoliquidarsi’, cioè di svendere la terra e abbandonare l’attività agricola. Nell’estate 1928 il governo sovietico, preoccupato dalla vastità del fenomeno, fece marcia indietro. Ma durante l’inverno ‘28-‘29, essendo ancora diminuita, per la riduzione delle semine, la disponibilità di grano e quindi gli acquisti da parte del governo, si tornò alla violenza. Così nel 1929 si ebbero una nuova corsa alla riduzione delle semine e altre ‘autoliquidazioni’. A metà 1929 si dovette introdurre il razionamento nelle città; in pari tempo venne decisa la collettivizzazione generale della terra; collettivizzazione che, leggiamo, si trasformò presto in una “corsa folle”. I contadini poveri e medi venivano sollecitati a ‘rovesciare’ i kulaki, e a privarli dei loro mezzi di produzione, per conferirli, insieme coi propri, nelle fattorie collettive. Di fatto non furono essi, ma i militanti comunisti ad agire: effettuarono per cominciare molti arresti e fucilazioni di capi famiglia kulaki; poi, nei primi mesi del 1930, procedettero alla deportazione in massa di tutti i kulaki, uomini, donne e bambini.

Quali furono le ragioni teoriche (senza le quali non si muove foglia in ambito comunista) di una deportazione equivalente in pratica a uno sterminio? Esse vennero ripetutamente dibattute in assemblee, e tra l’altro, con particolare autorità, nell’assemblea plenaria del Comitato centrale del partito, dell’aprile 1929, della quale abbiamo i resoconti pubblicati da Mosca in lingua italiana. Contro Bukharin che — spaventato dalla prospettiva di quanto stava per accadere — faceva notare come kulaki e subkulaki, anche se proprietari, erano spesso dei “miserabili”, dei “disgraziati che non saziavano neppure la loro fame”, il segretario generale del Comitato centrale del partito, Stalin, richiamò severamente alla teoria, ricordando all’assemblea: “È evidente che questa concezione dei contadini è radicalmente sbagliata, incompatibile col leninismo” (27). Ai successivi tentativi di Bukharin e di Rosit di evitare ai kulaki almeno la morte fisica “integrandoli nel socialismo” (cioè assumendoli, una volta privati della loro terra, nelle fattorie collettive o in una qualsiasi altra attività che gli permettesse di vivere), il segretario generale obiettò: “Non meno ridicola appare quest’altra domanda: se si può lasciar entrare il kulak nel colcoz. È certo che non si può lasciarlo entrare” (28).

A motivo del seguente ragionamento: “Se i capitalisti della città e della campagna, se i kulak e il concessionario, si integrano nel socialismo, che bisogno c’è allora in generale della dittatura del proletariato, e se ve n’è bisogno, qual è la classe che bisogna reprimere?” (29). Il segretario generale Stalin mise l’assemblea davanti all’alternativa: “O la teoria di Marx della lotta di classe, o la teoria dell’integrazione dei capitalisti nel socialismo. O l’opposizione inconciliabile degli interessi di classe, o la teoria dell’armonia degli interessi di classe. Una delle due” (30). “Infatti” insisté “la teoria bukhariniana dell’integrazione del kulak nel socialismo, rappresenta un abbandono della teoria marxista-leninista della lotta di classe.., e si avvicina alla teoria del socialismo della cattedra” (31). Seguirono altre argomentazioni serrate: a una citazione di Lenin, coraggiosamente fatta da Bukharin in favore della propria tesi, il segretario generale contrappose altre citazioni di Lenin senza dubbio contrarie. Il lettore è in grado di seguire passo passo il filo delle successive motivazioni dottrinali in base alle quali fu programmato lo sterminio di tanti milioni di esseri umani (32).

Il terribile racconto dì un testimone oculare
Tra le testimonianze di ciò che successe effettivamente nei villaggi, la più efficace è forse quella di Vasilij Grossman, che fu testimone oculare; egli riferisce che esecutori degli ordini furono tutti i comunisti locali, costituenti nel loro insieme l”attivo’ di villaggio; gente di impostazione mentale diversa: ce n’erano “che credevano in una vita felice se si fossero annientati i kulaki”, altri “che nel sangue altrui si facevano gli affari loro.., e depredavano”, i più infine semplicemente “eseguivano gli ordini” (33). “Rovinare gli altri era facile: bastava scrivere una denuncia, non occorreva neanche la firma”. Si denunciava che “qualcuno aveva fatto il bracciante alle sue dipendenze, oppure che possedeva tre mucche: ed eccoti fatto un kulak”. Ebbero dapprima luogo quegli arresti e fucilazioni individuali di capi famiglia, di cui abbiamo parlato. In seguito, una volta decisa la deportazione generale, le autorità “annunciarono apertamente che bisognava sollevare il furore delle masse contro i kulaki, annientarli tutti come classe, i maledetti…” (34); cominciò allora lo scatenamento programmato del terrore: i kulaki vennero accusati dei delitti più pazzeschi e inverosimili, gli elementi dell’‘attivo’, scrive Grossman, “diventarono come dei forsennati, come stregati” (35). Minacciavano pubblicamente anche i bambini: “Vampiri!” gridavano “e quei vampiri non avevano già più una goccia di sangue nelle vene dalla paura, erano bianchi come la carta” (36).

Venne il tempo della deportazione: “Da ogni villaggio una colonna di gente… Li spingevano a camminare sotto la scorta della Ghepeù come assassini: nonni e nonne, donne e bambini… La gente sussurrava: ‘Cacciano via il kulaccame’ ed era come se vedessero dei lupi. E certuni gli gridavano: ‘Maledetti!’; loro non piangevano neanche più, erano diventati di pietra…” (37). Troviamo in altri autori che non di rado le tragiche colonne dovettero attendere parecchio tempo prima di essere caricate sui carri ferroviari, non reperibili in numero sufficiente. V. Tendriakov scrive:

“A Vokrovo, capoluogo del rajon, i kulaki cacciati dall’ucraina si stendevano a terra, nel piccolo giardino antistante la stazione, e morivano. Era cosa abituale trovare qui i loro corpi, al mattino. Veniva mandato un carro, e l’uomo di fatica dell’ospedale, Abram, vi ammucchiava dentro i cadaveri. Non tutti morivano. Alcuni vagabondavano in mezzo alla polvere delle piccole strade cittadine, trascinando a stento le gambe ricoperte di piaghe, gonfi di edema, chiedendo la carità ai passanti con occhi di cane implorante. Ma a Vokrovo non strappavano niente” (38).

Dopo le deportazioni la carestia
Riprendiamo l’esposizione storica di ciò che accadde dopo la deportazione dei kulaki.

I contadini dello strato povero e medio (quelli che — sotto l’azione dell’incitamento sistematico all’odio — erano giunti, come abbiamo detto, a considerare gli infelici kulaki dei lupi e a gridargli “Maledetti!”) badavano soprattutto a non farsi strappare essi stessi i propri poderi per la collettivizzazione; chi aveva a suo tempo ricevuta la terra dai comunisti, non meno degli altri .

Moltissimi, una volta privati dei loro campi, anziché consegnare anche gli animali domestici, come veniva loro imposto, li uccisero, dando luogo a un eccidio di proporzioni mai viste prima in alcun luogo. Statisticamente il bestiame bovino calò da 60,1 milioni di capi a 33,5; anche i cavalli, i maiali e le pecore si ridussero a circa la metà; in proporzione si ridusse la disponibilità di fertilizzanti organici per la terra (39). Si ebbero numerose ribellioni di contadini disarmati, che vennero soffocate dai comunisti con implacabile spietatezza.(40). Nel febbraio 1930 ben dieci milioni di famiglie contadine erano già inquadrate nelle fattorie collettive.

Nel marzo sembrò aver luogo un ripensamento: Stalin scrisse un articolo che doveva poi restar celebre. La vertigine del successo, in cui — per stornare da sé e dal partito l’esecrazione di di un così enorme numero di persone — fingeva di disapprovare che i contadini venissero obbligati con la forza a entrare nelle fattorie collettive, attribuendo ciò a funzionari ottusi e troppo zelanti; seguirono alcune condanne di funzionari nei tribunali. Molta gente semplice — sia tra i contadini, sia tra i militanti comunisti — gli credette, ed ebbe inizio un fenomeno davvero impensato: l’esodo in massa dei contadini dalle fattorie collettive. Fu un fenomeno plebiscitario, simile a quello che si sarebbe verificato ventisei anni più tardi in Polonia al tempo della destalinizzazione; ma in Russia il potere comunista intervenne subito e lo bloccò. La produzione agricola calò immediatamente, e sarebbe seguitata a calare negli anni successivi: fatta 100 quella del 1929, fu pari a 94,4 nel ‘30, a 92 nel ‘31, a 86 nel ‘32 e a 81,5 nel ‘33. Nel 1932 iniziò la carestia; il 1933 fu l’anno della più grande carestia; ciononostante anche durante questi due anni continuarono spietatamente le esportazioni di cereali dalla Russia (17-18 milioni dì quintali per anno), e di burro (41), in cambio di valuta necessaria all’industrializzazione. I morti di fame — praticamente tutti contadini — furono milioni: come abbiamo ricordato, Robert Conquest li computa in 5.500.000, Solgenitsin parla di 6 milioni; tra essi vi furono anche dei parenti contadini di Crusciov.

Esodo raccapricciante
Il già citato Grossman descrive ciò che accadde nei villaggi una volta collettivizzata la terra. “Dopo la liquidazione dei kulaki la superficie coltivata diminuì molto e il raccolto diventò basso”. Non per questo era ammesso che diminuissero le consegne di grano allo stato; al contrario “le consegne che fissarono per il nostro villaggio furono tali che non avremmo saputo effettuarle in dieci anni. Al Soviet si ubriacarono per lo spavento anche quelli che di solito non bevevano” (42). Finito il raccolto, le squadre comuniste presero a cercare “il grano come se non fosse grano, ma bombe, mitragliatrici. Saggiavano la terra con le baionette, sfondavano tutti i pavimenti..” Ebbe in seguito inizio la fame: “E così la grande paura. Le madri guardavano i bambini e cominciavano a gridare dalla paura. Gridavano come se in casa fosse entrato un serpente…” Passati altri mesi anche “i bambini urlavano, non dormivano; chiedevano pane anche di notte… ” Divennero simili a piccoli spettri: “Hai mai visto — ne hanno pubblicato le fotografie sui giornali — i bambini nei lager tedeschi? Tali e quali anche i nostri. .”. Venne in seguito una “morìa generale… Dapprima i bambini, i vecchi, poi l’età media. In principio li sotterrarono, poi non lo fecero più. Così i morti si ammucchiarono nelle strade, nei cortili, e gli ultimi rimasero nelle isbe. Tutto si fece silenzioso” (43).

Ai kulaki ancora vegetanti in attesa di deportazione nelle stazioni ferroviarie, si aggiunsero gruppi sempre più numerosi di contadini dei due strati inferiori che, in preda alla fame, cercavano di trasferirsi dovunque ci fosse da mangiare. Solgenitsin ricorda: “Lunghe teorie di gente che moriva di fame si trascinavano verso le stazioni ferroviarie, nella speranza di raggiungere le città… Ma non ottenevano i biglietti, non riuscivano a partire e morivano, cataste umane con le palandrane da contadino e le calzature di scorza d’albero… Erano gli anni estenuanti dal 1929 al 1933” (44). Intanto, dice Grossman, nelle città delle zone agricole e in particolare a Kiev, molti contadini “affamati strisciavano in mezzo alla gente: bambini, nonni, ragazzette, e non pareva nemmeno che fossero esseri umani, ma una sorta di cagnetti o gattini schifosi su quattro zampe…” Anche qui “ogni mattina passavano delle piattaforme speciali trainate da cavalli e raccoglievano quelli che erano morti durante la notte” (45). “Ho visto una di queste piattaforme: c’erano deposte salme di bambini. Proprio come li ho descritti: sottili, lunghi lunghi, musetti come quelli di uccellini morti, beccucci adunchi… E fra loro ce n’erano che pigolavano ancora, le teste come riempite d’acqua dondolavano. Domandai al vetturale: perché anche quelli, ancora vivi? Lui fece un gesto come a dire: prima che arriviamo a destinazione non sono più vivi” (46).

Cannibali per la fame
Ci si chiederà come fosse possibile una così atroce insensibilità degli abitanti di Kiev verso i contadini affamati. In realtà, malgrado le loro carte annonarie, anch’essi avevano gravi difficoltà a rifornirsi; davanti a negozi e spacci infatti “che cosa non succedeva! Code di mezzo chilometro che si formavano sin dalla sera.. erano code particolari: si tenevano tutti abbracciati l’uno all’altro per la vita e facevano un corpo solo” (47).

Se è lecito, in relazione a così smisurato dramma, aggiungere un ricordo personale, l’estensore delle presenti note, che dieci anni dopo la carestia fu nelle campagne ucraine con il C.S.I.R., constatò di persona che il ricordo vi era ancora atrocemente vivo. Per fare un solo esempio: in un villaggio della zona di Jasinovataja veniva dai contadini indicata ai militari italiani una donna che era arrivata a cucinare le carni di un proprio bambino morto di fame, per alimentare gli altri suoi figli morenti. Al profumo dell’orribile arrosto molti del villaggio erano accorsi e l’avevano scoperta. Vedendosi ora additata e fatta oggetto di curiosità da parte dei soldati italiani, la poveretta fuggiva ogni volta a nascondersi piangendo nella sua isba.

Il numero maggiore di vittime non si ebbe però qui, nei villaggi affamati e nelle città, sebbene, come s’è detto, i morti vi si siano contati a milioni; non fu qui il culmine della sofferenza.

La sorte dei deportati
Torniamo ai deportati. Dei kulaki, a cui vennero aggiunti i subkulaki che seguitavano a resistere alla collettivizzazione, Solgenitsin scrive: “Nulla di comparabile v’era mai stato nella storia della Russia. Fu una trasmigrazione di popoli, una catastrofe etnica. Ma… le città non si sarebbero accorte di nulla se non ci fosse stata la carestia, che le sconvolse per tre anni, una strana carestia senza siccità e senza guerra” (48).

Scarse sono le notizie di cui disponiamo intorno a queste moltitudini deportate. Sappiamo che moltissimi, specie bambini e vecchi, morirono di fame e di freddo già dentro i carri che li trasportavano verso le gelide regioni disabitate dell’estremo Nord e della Siberia; i più tuttavia devono essere giunti a destinazione. C’è notizia che in qualche raro luogo vennero approntati dei campi di raccolta per loro; lo stesso Medvedev però — sempre sollecito nel darci le statistiche ufficiali sovietiche (lui che, come abbiamo detto, è tuttora comunista) — dice solo: “Centinaia di colonie per kulaki (spetsposelenija) furono create agli inizi degli anni Trenta nelle regioni disabitate della Siberia e dell’estremo Oriente sovietico”.. (49). Centinaia: se la loro capienza era analoga a quella dei lager comuni, dobbiamo ritenere che solo una minima parte dei deportati poté trovare al suo arrivo ricovero in queste colonie. Desidereremmo però avere, se possibile, maggiori informazioni. Troviamo altre notizie, sporadiche, di gruppi di deportati (appartenenti a quelle colonie?) presi in forza — nonostante i divieti del Comitato centrale del partito — dai Lespromchoz (o aziende industriali forestali) per il taglio di boschi in zone particolarmente impervie. Leggiamo anche di altri che — essendo stati scaricati in zone boscose — malgrado lo stato di sfinimento in cui versavano, si adoperarono a costruire urgentemente con rami, legname e muschio, dei ricoveri di fortuna per sé e i propri famigliari. E.M. Landau riferisce di aver incontrato un gruppo di famiglie kulake scaricate dal treno “trecento chilometri all’interno” di una zona disabitata “in Siberia, nel 1930, in pieno inverno, con un gelo durissimo”. Erano vive, ma in condizioni tali che “uno dei contadini, incapace di sopportare ulteriormente i lamenti di un bambino affamato, che succhiava il seno privo di latte della madre, lo strappò dalle braccia della moglie” (si trattava dunque di suo figlio!) “e gli spaccò la testa contro un albero” (50). Le notizie di cui disponiamo si riferiscono comunque a minoranze irrisorie: e tutti gli altri?

Leggiamo in Solgenitsin che non pochi fecero l’ultima parte del viaggio sui grandi fiumi siberiani (da secoli vie di penetrazione nell’estremo Nord): “La Dvina settentrionale, l’Ob e l’Jenisej sanno quando si cominciò a trasportare i detenuti coi barconi: fu al tempo dell’annientamento dei kulaki. Questi fiumi scorrono direttamente a Nord, i barconi erano panciuti, capaci, e solo così fu possibile trasferire tutta quella grigia massa dalla Russia dei viventi al settentrione, dove non c’è vita. Buttavano gli uomini nell’ampio truogolo del barcone e là giacevano, alla rinfusa, muovendosi come granchi in una cesta. In alto sui bordi, come su rocce, stavano le sentinelle… A volte la massa veniva ricoperta con un telone… La navigazione su un tale barcone non era più un trasferimento, era la morte a rate, Inoltre la massa non veniva quasi nutrita e, una volta scaricata nella tundra, non era più nutrita affatto. La lasciavano morire a tu per tu con la natura” (51).

Non trarremo conclusioni: la conclusione emerge da sé, dall’enormità dell’accaduto, e sarebbe stupido lavorarci intorno con parole. Poiché tuttavia siamo esposti all’eventuale pericolo che simili vicende si ripetano (e anzi, come abbiamo detto, in Cina si sono già ripetute) vorremmo richiamare l’attenzione del lettore sul fatto che ciò non è ineluttabile, che nessuno ci obbliga a rimanere inerti, e che se non altro un modo per non essere complici lo abbiamo. Ce lo indica ancora una volta Solgenitsin, il quale giustamente va ripetendo che il vero impegno dell’uomo, nel nostro tempo, dovrebbe essere di cessare di adeguarsi alla menzogna. Ha spiegato il novembre scorso, durante un’intervista a Zurigo: “lo non chiedo ai miei connazionali di scendere per le strade e imbracciare le armi. La liberazione verrà — e può venire in pochi mesi — quando gli uomini avranno imparato a vergognarsi della menzogna, della complicità offerta coi silenzio e con la rassegnazione agli aguzzini”.

A noi in Italia non dovrebbe essere impossibile, in pratica, ottenere che almeno gli organi di stampa cristiani — tutti e non soltanto qualcuno — si ribellino al ‘divieto di fare domande’ che la cultura laicista oggi dominante impone. Dovremmo ottenere inoltre che la televisione si occupi di queste cose, e non in modo saltuario.

Note
(1) Del Noce – Spirito, Tramonto o eclissi dei valori tradizionali?, Rusconi, Milano 1971, p. 173.

(2) Per quanto concerne quelli italiani, chi voglia approfondire può trovare qualche notizia in Eugenia Ginzburg (Viaggio nella vertigine, Mondadori, Milano 1967). Si veda a p. 311 e segg. la descrizione della tortura di una comunista italiana sottoposta d’inverno a sistematici getti d’acqua gelida (“la voce acuta dell’italiana la sento ancor oggi dopo un quarto di secolo, mentre scrivo queste pagine”). Altre notizie le dà Robert Conquest (sulla cui opera ci soffermeremo presto) il quale a p. 599 riferisce che “circa duecento comunisti italiani perirono”. Torturato, ma dopo due anni di carcere rilasciato, fu Paolo Robotti, cognato di Togliatti, cui i cechisti “ruppero i denti e danneggiarono la spina dorsale in modo incurabile”. (Ciononostante si conservò non solo comunista, ma stalinista: si veda a p. 150 e 229 del suo libro di memorie — La prova, Leonardo Da Vinci, Bari 1965 — il suo astio per Crusciov che aveva osato demolire il mito di Stalin.) Secondo Robotti, al principio degli anni Trenta i comunisti italiani in Russia erano complessivamente duecentocinquanta circa, compresi i famigliari (p 45). Notizie interessanti sui rifugiati italiani in Russia sono anche in: R.V. Mayenburg, Hotel Lux, Editoriale Nuova, Milano 1979; ed in Emilio Guarnaschelli Una piccola pietra, Garzanti, Milano 1982.

(3) Rimane a tutt’oggi il più ricco di dati statistici; è un’indagine molto ampia e rigorosa, anche se porta in italiano l’infelice titolo di Il grande terrore, Mondadori, Milano 1970.

(4) Roy A. Medvedev, Lo stalinismo: origini, storia, conseguenze, Mondadori, Milano 1972; è gremitissimo di testimonianze e notizie.

(5) A. Solgenitsin, Arcipelago Gulag, Mondadori, Milano 1975; è troppo noto perché ci soffermiamo a parlarne.

(6) Wiston Churchill, La seconda guerra mondiale, parte IV, vol. II, p. 107, Mondadori, Milano 1951: “Dieci milioni” rispose Stalin alzando entrambe le mani: “fu una lotta terribile che durò ben quattro anni”. Anche se contro contadini inermi, fu addirittura, secondo Stalin, “una lotta più terribile” della guerra contro i nazisti.

(7) R. Conquest, op. cit., p. 735.

(8) R. Conquest, op. cit., p. 44.

(9) R. Medvedev, op. cit., p. XXIV.

(10) R. Medvedev, op. cit., p. 131.

(11) R. Medvedev, op. cit., p. 132: le ricava dall’Istorjia KPSS, Mosca 1960, p. 423.

(12) R. Medvedev, op. cit, p. 521: “Milioni di famiglie contadine erano state deportate al nord e in Siberia”.

(13) R. Medvedev, op. cit., p. 126.

(14) R. Medvedev, op. cit., p. 102.

(15) Va ricordato che le opere di questo grande autore hanno, fin dal loro primo apparire, prodotto sul lettore russo un senso di straordinaria illuminazione. Zores Medvedev (biologo, fratello dell’avanti citato Roy) riferisce che il lettore comune ((ha la sensazione di entrare in contatto con la vera storia russa”; egli avverte “l’assoluta certezza che quanto è descritto corrisponde esattamente allo svolgersi degli eventi”. La stessa Pravda nel breve tempo in qualche modo liberale di Crusciov, si è chiesta a proposito del primo libro di Solgenitsin pubblicato in Russia: “Come avviene che leggendo questo mirabile racconto non solo ne siamo profondamente commossi, ma si fa luce nella nostra mente?”.

(16) A. Solgenitsin, op. cit., p. 40.

(17) Vedasi il capitolo Il numero complessivo delle vittime in Cina nel presente volume.

(18) Ancora neI 1928 le fattorie collettive (colcozi) occupavano meno del 2% dei contadini russi.

(19) I. Deutscher, Stalin, Longanesi, Milano 1951, p. 386. — Chi voglia più informazioni sui byednyaki e sui serednyaki (in particolare sul loro reddito, che in realtà non era molto più basso di quello dei kulaki) può vedere in Lev Timofeev, L ‘arte del contadino di far la fame, Il Mulino, Bologna 1983, p. 11. — Le rigide classificazioni teoriche degli esseri umani da parte dei comunisti, furono satirizzate da Andrej Platonov nel romanzo Il villaggio della nuova vita (Mondadori, Milano 1972) ambientato in Ucraina in questo periodo. Protagonisti del romanzo sono gli Eccetera: alla parola eccetera, con cui si concludono spesso gli elenchi teorici marxisti, l’autore fa paradossalmente corrispondere un gruppo umano reale.

(20) Volendo conoscere i kulaki nella loro realtà e fuori d’ogni astrazione, si leggano in Solgenitsin, op. cit., le impareggiabili pp. 71 e segg.

(21) R. Medvedev, op. cit., p. 132.

(22) R. Medvedev, op. cit., p. 104.

(23) Secondo Medvedev, per esempio (op. cit., p. 128) subito dopo la rivoluzione i kulaki costituivano addirittura il 20% dei contadini.

(24) I. Deutscher, op. cit., p. 414.

(25) R. Medvedev, op. cit., p. 105.

(26) R. Medvedev, op. cit., p. 100.

(27) G. Stalin, Questioni del leninismo, ed. in lingua italiana, Mosca 1948, p. 287.

(28) G. Stalin, op. cit., p. 358.

(29) G. Stalin, op. cit., p. 280.

(30) G. Stalin, op. cit., p. 281.

(31) G. Stalin, op. cit., p. 283.

(32) Il peso reale che la teoria marxista ha anche fuori del mondo comunista, non deve essere sottovalutato. Si deve appunto ad essa — alla per tanti aspetti convincente teorizzazione d’un riscatto definitivo dell’uomo, ottenuto con mezzi soltanto naturali e con l’esclusione d’ogni trascendenza — l’incredibile fascino che il “vecchio libro scritto da Marx” ha sempre esercitato sulla generalità degli intellettuali di impostazione laicista, anche sui non marxisti. È soprattutto questo fascino paralizzante che spiega perché, in contrasto col loro proclamato umanitarismo e culto della verità, i liberals americani per esempio, e gli altri gruppi laici oggi detentori della quasi totalità dei mass media in Occidente, hanno collaborato per tanti anni coi marxisti nell’imporre a tutti il “divieto di fare domande” su quanto è accaduto nel passaggio dalla teoria alla realtà, là dove fu tentata la realizzazione del marxismo.

(33) Vasilij Grossman, Tutto scorre, Mondadori, Milano 1971, p. 146.

(34) Ibidem

(35) Non si può capire la psicologia del terrore se non si ricorda l’educazione all’odio, come strumento della lotta di classe, introdotta fin dai tempi di Lenin, per il quale era “l’odio, il nobile odio proletario, il principio di ogni saggezza” (V. Lenin, Opere scelte, vol. II, ed. in lingua italiana, Mosca 1948, p. 594); ma le citazioni potrebbero essere molte.

(36) V. Grossman, op. cit., p. 145.

(37) V. Grossman, op. cit., p. 149. — Durante la feroce campagna propagandistica contro i kulaki venne dunque fatta una scoperta molto importante: non soltanto chi veniva etichettato come kulak rimaneva paralizzato e non riusciva più a difendersi, ma anche gli altri contadini del villaggio (cui l’esproprio del kulak non avrebbe certo giovato, in quanto preludeva al loro stesso esproprio), si caricavano di un incredibile odio verso di lui, lo insultavano in privato, e in pubblico lo fuggivano come un lebbroso. In tal modo Stalin si rese conto di come una semplice parola possa diventare un’arma tremenda, se la si carica d’ogni possibile ignominia mediante tutti i mezzi di cui dispone la propaganda moderna. Coniò allora, e per vent’anni si servì sistematicamente, del termine “nemico del popolo” (in russo “vrag naroda”), che gli consentì di paralizzare, tagliandolo letteralmente fuori dall’umano consorzio, chiunque non gli andasse a genio: nel Rapporto Crusciov al XX Congresso viene denunciato il terrore che anche i massimi dirigenti del partito avevano di tale qualifica. (Dopo la guerra i comunisti esportarono la loro mirabile scoperta in Italia e in Occidente, dove il vocabolo prescelto fu “fascista”. Con questa accusa, scrive Del Noce, “si crea quel mito del fascismo in cui viene proposto un avversario mortale che nulla ha a che vedere col fascismo storico. Attraverso la trasfigurazione mitica, il concetto di fascismo si è estremamente dilatato, così che chiunque può venirne accusato: e giudice in ultima istanza di chi e di che cosa debba essere considerato fascista, dovrebbe restare il partito comunista”. Di quest’arma paralizzante i comunisti si servirono durante decenni in Italia non per uccidere e sterminare come in Russia, bensì per ricattare chiunque — persona o istituto — potesse esser loro d’ostacolo. Con la permanente minaccia ditale ricatto, essi imbavagliarono in innumerevoli occasioni la stampa, la radio, i canali televisivi, e asservirono ai fini della loro politica un elevato numero di intellettuali. Ultimamente (1991) si ha l’impressione che il termine “fascista” stia per esser sostituito dal termine “razzista”).

(38) Riportato da Medvedev, op. cit., p. 127.

(39) R. Medvedev, op. cit, p. 122.

(40) I. Deutscher (op. cit., p. 416) riferisce che in quel periodo, mentre viaggiava in treno da Mosca a Karkov, incontrò personalmente un colonnello della Ghepeù adibito alle repressioni, il quale, dopo avergli raccontato le proprie imprese contro lo zar nella guerra civile, “quasi singhiozzando” aggiunse: “E ho fatto tutto questo perché ora mi toccasse circondare i villaggi con le mitragliatrici e ordinare ai miei uomini di sparare indiscriminatamente contro folle di contadini? Oh, no, no!”.

(41) R. Conquest, op. cit, p. 43.

(42) V. Grossman, op. cit., p. 152.

(43) V. Grossman, op. cit., p. 163.

(44) A. Solgenitsin, op. cit., p. 208.

(45) V. Grossman, op. cit., p. 164.

(46) V. Grossman, op. cit., p. 165.

(47) V. Grossman, op. cit., p. 163.

(48) A. Solgenitsin, op. cit., p. 70.

(49) R. Medvedev, op. cit., p. 133.

(50) Riportato da Medvedev, op. cit., p. 133. — Notizie abbastanza particolareggiate, e non meno drammatiche, relative a un gruppo scaricato dai treni nella steppa arida del Kazachstan, sono nel n. 157 della rivista Russia cristiana del febbraio 1978.

(51) A. Solgenitsin,op. cit., p. 572.

(gennaio 1975, Studi Cattolici)