L’amore di Eugenio Corti per il Medioevo
Non si sapeva perché, ma aveva una chiarezza da Medioevo.
Louis Aragon, Aurélien
A leggere i giornali progressisti, a dar retta alle associazioni che spuntano come funghi nel sottobosco protetto dalle fronde del mondo occidentale di radice elleno-cristiana, a prendere sul serio i cliché del modernismo infiltratosi finanche nei templi della più fondamentale ortodossia, quella cattolica, in questo inizio di terzo millennio i grandi problemi sociali parrebbero esser la xenofobia, l’islamofobia, l’omofobia.
Se non che dalle rivoluzioni francese, industriale e russa in poi, tutte figlie delle idee illuministe, portati degenerescenti di un Rinascimento storpiato in ribellione antropocentrica, l’unica vera, grande fobia imperante è in realtà ben altra, per la quale vale forse la pena, svincolandosi per una volta dalla varietà infinita di neologismi anglofoni, e anche per questo vacui ma pervasivi, di osare un neologismo ellenofono.
La mesaionofobia, il termine forse più adeguato per indicare quella che con Georges Bernanos si potrà definire, senza rischio d’errore, la “grande paura dei benpensanti” verso il Medioevo, o meglio ancora un autentico terrore, un terrorismo intellettuale diffuso e radicato, nel mondo civilizzato, teso a negare il ruolo fondamentale che per esso stesso ha avuto quello straordinario periodo che è stato “l’epoca di mezzo”.
In un breve testo ricognitivo, che prelude a un dialogo con una beata umbra, edito nel volume Il Medioevo e altri racconti, lo scrittore brianzolo Eugenio Corti, il quale, dopo aver portato a termine la sua più ampia opera narrativa, si è per anni confrontato con lo studio di tale epoca storica, ne mette in dubbio la definizione stessa, o meglio ancora la suddivisione (illuminista e del tutto arbitraria) della storia degli ultimi venticinque secoli in tre grandi epoche, ossia la classicità elleno-romana (considerata a ragione luminosa), il Medioevo barbaro e dunque oscurantista (ritenuto a torto una fase di buio) e la modernità dei nuovi lumi, o quelle che Leopardi cantava (ironicamente senza torto alcuno) le “magnifiche sorti e progressive”.
Una simile suddivisione e caratterizzazione esprime per Corti una presa di posizione, un punto di vista del tutto arbitrario e ideologicamente determinato, negativo e negatore di quello che fu il vero valore del Medioevo, e che si è insinuato a livello di pensiero corrente negli ultimi due secoli, con una violenta con incredibile accelerazione negli ultimi decenni tra i cosiddetti colti e dunque nella cultura ufficiale, accademica, istituzionale ergo nazionale con i suoi culti laici o meglio laicisti in modo sempre più automatico e virulento, specie a partire da quel Dopoguerra che ruppe con la tradizione, sicché, come annota uno dei migliori lettori oltre che caro amico di Eugenio Corti e suo conterraneo, insegnante nonché poeta, Andrea Sciffo:
Purtroppo, molti dei cosiddetti giovani già all’università cominceranno a usare l’aggettivo medioevale nel senso dispregiativo di buio, oscuro, oscurantista. Gli altri ignoreranno, brancolanti nell’oscurità.
Perché la realtà è ben differente, nella prospettiva cristiana di Sciffo come di Corti, per i quali il Medioevo corrisponde a uno dei vertici, anzi forse proprio la vetta, della storia umana e non soltanto una fase luminosa di transizione tra il mondo classico elleno-romano e quello rinascimentale e poi moderno, la quale ha tradotto – nel duplice senso di trasportare conservando, e di volgere in altre, nuove lingue – tutta la tradizione elleno-cristiana, dai grandi filosofi greci ai Padri del deserto e della Chiesa antica, dalla cultura del bacino mediterraneo alle straordinarie avventure artistiche, in primis architettoniche, scultoree e pittoriche, del romanico e del gotico che fondano l’iconografia, i paesaggi e l’identità del Vecchio Continente.
Nella falsa luce del cosiddetto illuminismo si cela invece, in tale prospettiva, una vera oscurità – a riguardo è quasi inevitabile far riferimento alle parole di san Paolo, 2Co 11,14 – che è poi propria a molte teorie moderne, le quali paradossalmente attribuiscono ex cathedra il buio a quella che fu una fase storica fondante per l’Europa tutta – col Sacro Romano e con la Res Publica Christiana, come ricorda lo stesso Corti – cui almeno la sua parte più occidentale e infatti spenglerianamente più declinante si adopera a farne un sistematico vilipendio allo scopo di negare, con uno spossante lavorio pseudo-culturale di chiara impronta illuminista, marxiana in genere e, in ambito italiano, più specificamente gramsciana, e pure fascista.
Di tale deriva, acceleratasi come detto nel Dopoguerra, Corti è stato testimone oculare e narratore – il valore dei suoi romanzi è di certo più di testimonianza che di sperimentazione – dai tratti epico- cronachistici degni del miglior Manzoni, uno dei maggiori riferimenti assieme a Tolstoj e Solženicyn, per il suo enorme romanzo storico novecentesco, Il cavallo rosso, ma della bibliografia cortiana fa appunto parte un libro “pseudo-apologetico” dedicato alle radici medioevali del Cristianesimo – e quindi anche della sua Brianza, tanto premoderna, romanica, quanto moderna – ispirato alla beata Angelina, con la quale il romanziere di Besana intesse un dialogo che va a definire il quadro in cui s’inseriscono tutte le sue opere.
Tale dialogo, pragmatico ancor più che mistico, anche perché Corti incarnava appieno, come il suo stile romanzesco, lo spirito pratico della sua terra, altro non è che l’esplorazione del ruolo che il Medioevo ha avuto e ancora può avere per la vita quotidiana, concreta di ogni uomo, e nello specifico dello scrittore che fu, certo per indole e per genio personale ma anche per un voto fatto alla Vergine durante la guerra.
Tanto Il cavallo rosso è dunque una sorta di catechismo narrativo per figure storiche, insieme reali – in buona parte autobiografiche e se non altro sempre assolutamente realistiche – e allegoriche come in Manzoni e in Dostoevskij, quindi per modelli e antimodelli, moderni e antimoderni, radicati e sradicati, radicanti e sradicanti, nel verde della sua terra, certo, ma anche e soprattutto in cielo, ovverosia nello spiri- to…
Ne Il cavallo rosso come negli altri romanzi, si tratta di figure ed eventi reali e allegorici che sono segni di un maestoso e magistrale (del Maestro, Cristo e non Corti) albero della vita le cui fronde hanno radici che affondano proprio nel Medioevo che vide la civilizzazione della sua Brianza e del Continente intero fiorire sui resti delle barbarie pagane, e che nelle vicende personali dello scrittore e dei suoi personaggi può essere esemplare e utile per tutti, come Corti d’altronde pensò ogni sua impresa letteraria, lontana dal culturame imperante, parola che rima, in un tragico chiasmo di valore, con contadiname, termine con cui Gramsci (e successivamente pure Gadda) identificava il popolo rurale, visto come retrogrado, ergo medioevale.
Solo apparentemente più serene – la realtà moderna che Corti ritrova dopo il conflitto è un inferno solo attenuato – di quelle descritte nei diari di guerra, dalla Russia alla disfatta di un popolo spesso osceno, quello italico de I poveri cristi, nella risalita da Sud a Bolzano alla fine della sciagura mondiale, le immagini de Il cavallo rosso contengono, specie nel momento più tragico (nella prospettiva più “terrestre”), un che di medioevale, allorché, a fianco del simbolo della modernità più quotidiana eppure mortifera (in senso stretto e anche più lato), ossia l’automobile che il filosofo conservatore statunitense Russell Kirk era solito definire “giacobina meccanica”, appare l’angelo che scende per raccogliere l’anima di una morta.
È l’anima di una vittima d’incidente automobilistico che ha luogo proprio su una strada della Brianza – si tratta di Alma, parola che in latino significa per l’appunto “anima”, la quale, in viaggio con un groppo in gola come Lucia Mondella, ha in mente l’Addio ai monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo… del personaggio di Manzoni, appena prima di cadere nel lago di Lecco con la sua piccola vettura con crocifisso sul cruscotto, da una vecchia strada malridotta, simbolo, per il narratore, di un paese che, subito dopo il cosiddetto boom economico, ha smesso di funzionare, persino in una delle sue regioni più civilizzate – e Corti definisce un quadro in cui il mondo presente incontra una visione, o meglio una realtà “medioevale”.
Un quadro allegorico e dialettico novecentesco, vissuto, come scriveva Spengler, volentes aut nolentes, tra Gesù e meccanizzazione, tra Fede e modernizzazione, e insieme medioevale, in quanto intriso di Cristianesimo, e tagliato come un bassorilievo esemplare da uno scrittore che non per caso si voleva “scultore di parole”, come i romanici mastri comacini (ossia provenienti dal Comasco) che definirono l’Europa.
Gli unici a essere preoccupati per lei in quel momento erano i due angeli, il suo e quello di Michele, mentre Michele adesso dormiva pacificamente dentro l’Alfa 1300. Prima che il bar chiudesse egli aveva disposta ogni cosa per la riparazione della vettura l’indomani, quindi s’era seduto in attesa al posto di guida. Aveva ripetuta la preghiera ai due angeli custodi senza rendersi conto di quanto in quel momento fosse tempestiva e importante, poi si era detto: “Tra poco dovrò tenere d’occhio la strada perché Alma non passi senza avvistarmi”, e aveva fatta anche qualche prova […]. Dopo di che la molta stanchezza, ancor più psichica che fisica, e il non poco sonno arretrato, gli avevano fatto appoggiare gli avambracci sul volante e la testa sugli avambracci. “Attento però: non devo addormentarmi” si era detto: “E con le braccia… devo cercare di… non premere il clacson… le braccia… il clacson… le…” Finché un po’ alla volta s’era assopito.
Così gli unici ad essere in guardia mentre s’avvicinava il momento della morte di Alma erano i due angeli custodi: quello gagliardo di Michele e il suo, l’angelo cortese che Dio le aveva messo accanto prima che lei nascesse, quand’era ancora nel grembo di sua madre, a custodirla fin da allora. Furono i due angeli a ispirare alla donna una preghiera che essa – quasi intuendo l’origine della sollecitazione – rivolse appunto a loro: “Angeli di Dio che siete i nostri custodi…”
A bordo della sua Fiat 125,
[…] la donna udì lo stridore del metallo contro i ritti di pietra del parapetto e urtò in pari tempo con terribile violenza il capo. Dopo di che non s’accorse più di niente: non si accorse che la macchina, sfondato il parapetto, precipitava nell’acqua nera. Ebbe solo una lontana, lontanissima percezione di freddo, e fu la sua ultima percezione quaggiù.
Sulla sua anima, come due falchi, piombarono ad ali chiuse i due angeli: il suo e quello di Michele, pronti all’ultima difesa contro eventuali insidie all’ingresso nel mondo egli spiriti. Ma non ci furono insidie.
Mentre, rotolando lentamente sott’acqua, la macchina col corpo ormai senza vita d’Almina precipitava giù giù verso il fondo del lago, la sua anima e i due angeli affiorarono insieme nell’aldilà, nel mondo per noi inimmaginabile perché fatto unicamente di spirito. Sorridendo- le senza sorridere, e parlandole senza parlare, gli angeli – splendide creature a mezzo tra raggi di luce e soldati – diedero il benvenuto ad Alma […].
A questo punto l’angelo di Michele fece un gesto circolare di sa- luto: “Beh, io devo tornar giù” disse con un mezzo sospiro, “il mio posto è ancora là”, e schiuse le ali per lanciarsi nel tragico mondo degli uomini.”
Ma se tutto ciò può esser solo negli occhi (o meglio colto solo dagli occhi) e nella mente di un lettore cristiano non mesaionofobo, che vi può dunque vedere una maestosa raffigurazione delle esistenze in terra e in cielo, e se l’epigrafe con le parole di T. S. Eliot (“Ecco, ora svaniscono / I volti e i luoghi, con quella parte di noi che, come poteva, li amava, / Per rinnovarsi, trasfigurati, in un’altra trama”), poeta che può risultare la migliore guida alla comprensione del senso del mondo moderno al di là delle sue apparenze, verso le visioni essenziali, eterne, e quindi “medioevali”, ecco il testo cortiano sul Medioevo, ecco l’esplicita irruzione di quel tempo di fede e luce nel pensiero (cioè l’interpretazione del reale) di un autore il quale voleva che la propria opera fosse letta come un bassorilievo, esemplare e sempre rivolta e tesa verso Dio, ma mai distaccata dalla realtà concreta, dalla materia, dalla vita, come nello spirito della sua terra, per la quale le due dimensioni sono cattolicamente legate (il “come in cielo così in terra”), secondo una religione attiva come gli angeli custodi di Alma e Michele, e come il modello offerto da un Medioevo non inteso come oggetto di studio accademico, fossile, inerte.
La ricerca della realtà dello spirito nel mondo in cui vive, dalla Brianza alla Russia, dalla guerra alla scrittura, dalla visione civile alla vita coniugale, è così per Corti una sorta di “ricerca del Medioevo”, come recita il titolo di un paragrafo del suo testo dedicato alla beata Angelina, e vale a dire l’interpretazione del XX secolo secondo la chiave delle essenze del Cristianesimo e pertanto alla luce del Medioevo stesso.
Corti ammette l’esistenza di alcuni secoli di orrori e miserie dovuti alle invasioni barbariche, in quello che viene sommariamente definito Medioevo, ma lamenta il fatto che siano messi come pere e mele nella stessa cesta con i secoli che seguirono, e allo stesso tempo non nega che nella costruzione della società, dal mondo primitivo alla civilizzazione cristiana, i miglioramenti siano avvenuti “passando per errori, retrocessioni, e stragi orribili, ma anche conseguendo via via splendide conquiste”, e da grande realista non si sogna di affermare che il Medioevo fu un tempo d’idillio, perché non ne esiste alcuno, così come neppure la sua Brianza di prima del fascismo e della guerra non era un Eden, ma dura vita, eppure il Medioevo e la Brianza tradizionale erano semplicemente più umani di un XX secolo che si è ostinato a negare di aver generato non solo una serie di tragedie mai viste prima ma “anche una colossale paralisi dell’arte in Occidente” nonché “lo splendido ritorno dei popoli europei alla civiltà” durante il Medioevo, quando in tutta l’Europa riaffiorarono le tracce della “meravigliosa primavera ellenica” proprio grazie alla diffusione nel Continente del messaggio cristiano…
La parabola va dalle chiese romaniche a Raffaello e Michelangelo, dalla Spagna alla Boemia, dalle arti alla scienza e alla tecnica che, dalle origini greco-romane, i medioevali, a partire dal XII secolo svilupparono in modi ignoti agli antichi, con un senso d’unità, sotto una fede comune venuta meno con le rivoluzioni il cui esito, nel XX secolo, è stata la dimostrazione del fallimento del loro umanesimo anticristiano.
Corti non è manicheo e non nega il progresso ma, come Pasolini, distingue quello vero da quello falso, e ricorda che esso viene dal passato, pure dal Medioevo, e rimarca come le scoperte scientifiche del XX secolo siano spesso andate a coincidere col rivelato biblico – per esempio le molte analogie tra le parole della Genesi e la teoria del big bang – eppure gli scienziati, diversamente dalla Bibbia, non spiegano cosa abbia dato origine a tutto, ma smentiscono che possa esser stato il caso sempre invocato dagli atei e laicisti. Esiste un Artefice, e a esso l’uomo si fa analogo sviluppando il suo essere “a sua immagine e somiglianza”, servendolo, rendendogli onore con le sue scoperte e creazioni, per esempio costruendo “architetture ancora più mirabili di quelle naturali”, le cattedrali, ma ecco “il drammaticissimo episodio” da cui hanno inizio i guai, a causa della sua superbia, della sua ribellione, “analoga a quella dentro il mondo degli angeli”, che per Corti furono presenti, sotto forma di demoni, con l’illuminismo. L’uomo pensa di poter bastare a se stesso, contro il senso della Creazione, e brama di farsi in tal modo pari a Dio “senza dipendere dalla sua grazia o flusso vitale sopranaturale”.
Corti descrive così la modernità come la “fase […] del preteso monopolio del progresso” da parte d’illuministi e rivoluzionari, la cui evoluzione nel comunismo porterà a qualcosa come più di cento milioni di morti, da sommarsi ai venticinque del nazismo, due totalitarismi paralleli e analoghi come i numeri delle stragi dei campi di Klima, comunista, e di Auschwitz, nazista, due milioni e mezzo di vittime ciascuna…
Altro che Medioevo oscuro.
La tragedia ulteriore è che la vulgata illuminista, sedicente progressista, non è in grado di comprendere il proprio fallimento. L’“umanesimo anticristiano”, ossia le filosofie avverse alla trascendenza, scrive Corti, permeano ormai la cultura occidentale. A un punto tale che l’Occidente non si dà nemmeno cura di spiegare simili eventi, o per meglio dire non sa e non può farlo. Per cui nasconde i delitti del comunismo.
Il Medioevo come epoca più buia, mortifera e tragica della storia Occidentale? La realtà è, come scrive Corti, che non c’è epoca senza drammi per l’umanità. E che la verità non detta, rimossa, è che quella moderna è l’epoca più tragica… Basta scorrere le pagine dei diari dello scrittore brianzolo, editi col titolo I più non ritornano, per trovare immagini sconvolgenti di cosa siano stati i totalitarismi novecenteschi e la guerra moderna, e in particolare sul fronte russo nei mesi invernali a cavallo del 1942 e del 1943, allorché i soldati italiani, nella loro ritirata, si trovarono presi in una “sacca” nel gelo delle terre dello stato sovietico che, tra gli altri, fucilò il suo più grande genio, Pavel Florenskij, troppo ortodosso ergo medioevale…
Io credo che anche durante i primi giorni di Tcerkovo ci siano stati dei morti di fame.
Ecco allora che i soldati tornavano a rubare, spesso col consenso degli ufficiali. […]
E c’erano scomparti dei grandi capannoni-magazzino, devastati da granate e bombe russe, in cui la pasta – come io stesso ebbi modo di osservare – mescolata a calcinacci e a neve, imputridiva.
Correva inoltre voce che, abbandonati nella neve davanti ai magazzini, giacessero sessanta o settanta cadaveri di soldati, i quali il giorno dell’arrivo avevano trovato del cognac e s’erano ubriacati. Usciti all’aperto erano crollati a terra, e il gelo li aveva uccisi senza che nessuno si curasse di loro […].
La vita all’infermeria era diventata impossibile. I locali che la costituivano […] rigurgitavano di feriti e di congelati ammucchiati gli uni sugli altri. Una sola delle stanzette veniva tenuta libera, perché l’unico tenente medico vi facesse quelle che venivano chiamate “le medicazioni”.
In realtà mancava qualsiasi materiale sanitario: le poche bisacce di medicinali lasciate dai nostri aerei si esaurivano infatti subito, perché il bisogno era immenso. […]
Il medico non poteva perciò far quasi altro che disinfettare – o meglio tentar di disinfettare – le ferite e le piaghe con del cognac misto ad acqua.
I pochi soldati addetti al servizio arrivavano appena in tempo a distribuire i viveri e a sciogliere la neve – a volte non troppo pulita – per l’acqua da bere, per cui, entrando in quella bolgia, si era colpiti dal lezzo nauseante degli escrementi che molti non erano in grado d’uscire all’aperto.
L’ambiente era perpetuamente pieno di fumo e vi risuonavano quasi in continuità le grida lamentose di coloro che chiedevano qualcosa. Alcuni, per avere l’acqua, gridavano per decine di minuti.
Lo spettacolo era deprimente anche all’esterno, dove la neve era tutta disseminata d’escrementi, e c’erano sempre degli straccioni intenti a soddisfare i loro bisogni corporali.
Vicino all’ingresso, e negli spiazzi tra le costruzioni circostanti, erano state scavate dai russi presi dalle truppe in linea (miserabili anch’essi nella prigionia: con le uniformi cenciose e i visi paonazzi per il gelo) alcune profonde fosse. Nelle quali ogni giorno venivano deposti, uno accanto all’altro, uno strato sopra l’altro, i cadaveri trascinati fuori dall’infermeria, e anche probabilmente portati dalle case intorno.
Sostai più di una volta a osservarli.
La pietà di qualche amico aveva infisso, accanto alla testa dell’uno o dell’altro morto, una misera Croce fatta con due assicelle inchiodate. Sul braccio orizzontale si leggeva – scritto per lo più in matita – il grado, il cognome, il nome, il reparto, e sovente anche la frase, che in quelle circostanze aveva un sapore così strano: “Caduto per la Patria”.
Con la deposizione di sempre nuovi cadaveri però molte di quelle Croci s’erano rovesciate, e giacevano frammiste ai morti, perciò i nomi non si capiva più a chi si riferissero. Nelle buche giacevano tante sagome oblunghe, avvolte in vesti ghiacciate, con visi nerastri che si faticava a riconoscere per visi, sulle quali la neve cercava invano, ogni tanto, di stendere un velo di misericordia.
È bene ripeterlo, Corti, realista, è conscio che mai c’è stato idillio nel mondo, e come non ce n’era nella sua Brianza prima del risorgimento, del socialismo, del fascismo e del conflitto mondiale, ma in ogni caso più grazia, così fu nel Medioevo, seppur con tutti gli eterni drammi umani, mentre è stato il XX secolo dar vita alla morte su una scala d’orrore del tutto sconosciuto in quei secoli a torto considerati oscuri…
La sua sintesi della storia umana, influenzata dal ruolo della rivelazione cristiana, è assai limpida e ha un tragico senso circolare, dalle epoche preistoriche in cui l’uomo lottava per la vita, contro gli animali e gli elementi e infine contro i suoi simili, prendendo gradualmente coscienza del dramma del suo esistere, “il dolore, la malattia e la morte”, alla moderna “generazione degli uomini ridotti allo stato primordiale”.
Già l’uomo della preistoria ebbe, prima della rivelazione biblica e poi di Gesù Cristo, la sensazione della presenza di Dio nella sua vita, e a testimoniarlo c’è il fatto che nella storia umana non sia esistito, almeno fino alla modernità, un popolo senza culto religioso, con quello cristiano a dare infine forma, dalle tribù alla Res Publica Christiana, a un Continente “con tendenza all’unificazione dell’intero genere umano”.
Il Medioevo in cui ebbe vita l’impero cristiano si assistette, come scrive Corti, la più alta forma di civilizzazione, sotto la guida di Dio e della Croce, di educazione alla salvezza con la reintegrazione degli uomini nella grazia tramite i sacramenti, ma non nel paradiso terrestre, che è perduto e non può esser ritrovato in terra, e da cui la civiltà moderna sempre più si allontana con le tragiche conseguenze del XX secolo.
La guerra, come per molti altri autori novecenteschi – in modo particolare i francesi Céline, Drieu La Rochelle, Malraux, Montherlant – è per Corti la “maggiore esperienza” della sua vita. Un’esperienza terribile, atroce, nefanda, ma per questo rivelatrice del dramma moderno, della differenza tra il suo tempo e il Medioevo, epoca in cui la guerra trovò un senso ben più nobile. La guerra è per Corti sempre un flagello per gli uomini, ma la verità è che i secoli detti “di mezzo” videro il passaggio dai predoni barbari ai cavalieri cortesi, che furono una realtà e un mito.
I cavalieri definirono un sistema di combattimento, uno stile di vita, una vera e propria etica, tutti fondamentalmente medioevali, ben diversi dalle leggi che muovevano le orde mongole di Gengis Khan e i maomettani operanti in nome del Corano, e basati sugli ideali di lealtà, col preciso compito di far sì la guerra al male presente nel mondo, ma senza mai uccidere l’avversario, bensì risollevandolo – il malicidio giustificato da san Bernardo da Chiaravalle è infatti un caso estremo – secondo la regola cristiana.
Il dato fondamentale, ricorda Corti, è che a differenza della “guerra santa” degli islamici, fondata su un libro bellicista come il Corano, per il Cristianesimo anche la “guerra giusta”, ovvero quella che si fa per sostenere dei diritti legittimi, è interpretata come un disordine, essendo ontologicamente non in conformità agli insegnamenti di Cristo, del tutto antitetici a quelli di Maometto e, per quanto concerne il XX secolo, dei più atroci ideologi della morte, i Lenin, gli Hitler, i Stalin, i Mao, esito ultimo della società borghese che dal XVI irrise quella cavalleresca.
Il giudizio di Corti è netto:
In ogni caso rimane, e non si può negare, un un dato di fatto: nei secoli centrali del Medioevo le guerre sono state meno omicide che in tutti gli altri secoli della storia: intendo statisticamente meno omicide.
Fu dopo la guerra che Corti, venticinquenne, mentre studiava per gli esami universitari, scriveva il primo libro e, come già sul fronte, s’immaginava una futura compagna, visse un primo rapporto con lo spirito del Medioevo proprio innamorandosi – o meglio, come scrive, innamorandosi di un amore immaginato, e “medioevale” – di una figura di donna che per lui ancora non aveva corpo, ma che era simile a quella di un tempo più sereno e felice come quello “di mezzo”, con un viso come quelli dipinti dal Perugino, di figlia di una famiglia umbra medioevale…
Perché se la Lombardia sono per lui le chiese del romanico-gotico, l’Umbria, terra d’origine di una ragazza incontrata in Cattolica e di cui s’innamorò prima di conoscere la sua futura moglie, sono i santi Francesco e Chiara, ma anche Angela da Foligno e Angelina di Marsciano, due beate presso le cui reliquie l’amata lo portò in quel di Foligno e alla seconda delle quali, antenata della giovane, domandarono protezione.
A riguardo Corti ammette…
il Cielo mi perdoni – scrutavo le ossa di quel viso consumato dai secoli, per individuare se per caso ci fosse una qualche somiglianza col bel viso fresco della mia ragazza, con scarsi risultati ovviamente.
Ma soprattutto, quando cinquant’anni dopo, avendo terminato la sua opera di narratore, si darà a uno studio più approfondito del Medioevo che, come scrive, resta “il tempo che […] mi piace di più”, scoprendo sui testi una cosa che già sapeva, ovvero che non esiste epoca perfetta, ma che esso offre più di ogni altra degli esempi di misticismo, grazia e carità come i due santi e le due beate, nati nelle terre umbre.
Immagina allora, con l’intercessione del santo di Assisi, autore di un altro dei suoi modelli letterari, il Cantico delle creature, di farle scendere dal cielo in terra, per dar vita a un dialogo con Angelina, il quale, in accordo col grande pragmatismo del besanese, è più concreto che mistico, ed esemplare nel rivelare l’angelico riferimento che il Medioevo può esser per il mondo contemporaneo che ha perso la vera fede.
E nella loro conversazione immaginaria, Angelina, a sua volta pragmatica, gli dice una frase che, come riferisce, più di ogni altra si è fissata nella sua memoria, a determinare il suo approccio alla scrittura: “Ben vengano anche i racconti del tuo tempo, fatti alla maniera vostra, sempre che siano a gloria di Dio.” Si è trattato così per Corti di colmare i vuoti della storia ufficiale, illuminata pure da ciò che è immaginario.
Il Medioevo può dunque essere oggi, come nelle vicende romanzate de Il cavallo rosso, l’angelo custode che scende dal cielo a prendere l’anima del fedele, anche nella modernità, meccanica e giacobina, di cui si trova in balìa, per trarla in paradiso.
Il Medioevo è oggi la piaga nella bellezza. Ed è pure la bellezza della piaga. Il Medioevo è ancora lo spirito nella carne. Ed è la carne stessa dello spirito. Il Medioevo è la presenza di ciò che è Eterno. È l’eterno nel presente, come scriveva Péguy…
Non c’è bisogno di ricerche filologiche, né in fondo di dialoghi come quello di Corti, che, come ammette, si sentiva inevitabilmente inadeguato di fronte alle due beate, ma basta guardare le chiese romaniche e gotiche, contemplare la loro bellezza.
Contro la vulgata moderna. La terreur mesaionofobica.
E seguendo le tracce petrarchesche – “Chiare, fresche et dolci acque” erano quelle del Lambro oppure della Vaucluse? – si può viaggiare dalla terra di Corti, dalla sua casa di Besana Brianza, alla Provenza dei troubadour d’amor cortese, della cavalleria cristiana (medievale), fino a una piccola grande chiesa in cui è riassunta tutta la storia occidentale, dal suo splendore (medioevale) alle sue moderne gesta distruttive…
Si tratta della chiesa di Saint-Victor in quel di Marsiglia, centro d’incontro di molti mondi, quello elleno-romano, quello gallo-celta e quello cristiano, nella cui cripta, base originale di tutto l’edificio che fu abbazia, si trova l’antichissima figura del santo locale, martirizzato nel 303, effigiata nella roccia bruta, levigata dal suo anonimo autore medioevale e, nei secoli e ancora oggi, dal tocco di migliaia di mani di fedeli.
L’abbazia, fondata da san Giovanni Cassiano, visse la sua fase più florida tra il 1000 e il XIV secolo, ospitò tra gli altri il futuro papa Urbano V, e, nella sua stratificazione di epoche e stili e infine nella barbara distruzione per mano dei rivoluzionari che segnò la fine della vita conventuale, offre un sunto iconico delle vette e degli abissi della storia europea nel lento declino dal Medioevo alla modernità atea e laicista.
Vi si può arrivare, in un atipico pellegrinaggio, partendo da Agliate, a due passi dal paese di Corti, dove c’è la basilica dei santi Pietro e Paolo, con le sue antiche pietre tratte dal letto del Lambro, che scorre accanto, con effluvi di solito mefitici, esito della seconda devastazione moderna, quella industriale, visto che ancora cent’anni fa lo scrittore Carlo Annoni, uno dei suoi tanti cantori, riprendendo un detto milanese, “Ciar com’el Làmber”, lo descriveva come “un brillio continuo” come di “pagliuzze d’argento”, oggi davvero inimmaginabile, al pari di quello che era, almeno fino ai primi anni d’unità italiana e forse ancora ai tempi della giovinezza di Corti, il mirabile equilibrio tra natura e creazione umana nella sua amata Brianza.
La visione della Vaucluse sarà allora il trauma di una grazia perduta e di una conservata, la rivelazione della differenza tra quella che appare come una delle meno alte entità politiche e civili d’Europa, l’Italia unita, e due grandi civilizzazioni, la Padanìa della Res Publica Christiana e una Francia che, a dispetto della storia di cui Saint-Victor è simbolo, pure nel XX secolo, specie nella provincia, ha saputo conservare…
(Marco Settimini, 21-22/09/18, La Croce)