Il pensiero laicista nasconde la verità

Eugenio Corti ritratto da Roberto GandolaQuando a Eugenio Corti fu proposta la direzione dell’Ordine, ci pensò su. Era collaboratore da vari anni per il quotidiano della diocesi, e si occupava quasi esclusivamente di Russia: storia, cultura e letteratura.

Dopo la morte di don Brusadelli fu quasi naturale, tra le figure autorevoli nell’orbita di quel giornale, rivolgersi a lui. «Dissi di no, alla fine: avrebbe compromesso il mio compito principale, fare lo scrittore. Ma ho sempre guardato con simpatia ai tentativi di uno strumento in un campo così accidentato».

Oggi Eugenio Corti torna, a 92 anni compiuti il 21 gennaio sull’Ordine di Como.
Lo fa con un colloquio per il quale con generosità offre un’ora di un tempo che è «sempre meno», come dice con sereno realismo riferendosi non alle ore del giorno, ma ai giorni del viaggio.

Scrittore tra i più grandi italiani, Corti vive nella sua Besana Brianza.

È difficile immaginare una persona in cui l’esistenza stessa, il timbro umano, i libri, gli scritti, riflettano così alla lettera le parole che papa Wojtyla usava per parlare di cultura: «Una fede che non diventi cultura non è una fede pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta».

E il suo piglio, malgrado le condizioni fisiche segnate dall’età, il volto scavato, i movimenti ridotti, i segni di un tremore alle mani, resta di lotta.

Dal suo rifugio brianzolo vede come bagliori di una guerra in cui l’esercito cui sente di appartenere («Noi della cultura cattolica», dice spesso) è in posizione di immotivata ritirata, quasi di sudditanza. E di questo si rammarica e parla con l’onestà intellettuale che lo contraddistingue in questa chiacchierata per la storica testata che avrebbe potuto vederlo direttore.

Quando ha capito quello che lei stesso chiama il suo “compito”?
All’inizio del mio percorso scolastico. La “colpa” è stata di Omero.

Quando è stato il suo primo impatto?
Io non sapevo neppure che esistesse, finché al collegio San Carlo, al ginnasio, non ci hanno distribuito l’Iliade. Rimasi letteralmente folgorato, ebbi la sensazione che quelle pagine, quelle parole, fossero state scritte per me. Credo che tutti nella vita abbiano un compito, purché lo vogliano scoprire. Per me allora divenne evidente quale fosse il mio nella mente del buon Dio. Dovevo fare lo scrittore. Non il giornalista, non il “grande scrittore”. Dovevo scrivere libri, usare questo dono.

Per chi? Per sé o per gli altri?
Entrambi, decisamente.

Da allora quindi fu tutto chiaro?
Non proprio. Io ero il maggiore di dieci fratelli: per me la famiglia aveva immaginato un futuro alla guida dell’azienda tessile di nostro padre. A un certo punto ebbe un serio problema di salute – io ero ancora uno studente – e il mio destino sembra a un passo dal realizzarsi. A quell’età per me non era pensabile mettersi contro un progetto dei miei genitori, che io adoravo e ritenevo molto più di me coscienti del mio bene. Il rettore del collegio, però, che evidentemente aveva avuto ragguagli dai docenti, affrontò in diversi colloqui i miei genitori. Io lì per lì lo ritenni un impudente: «Come si permette», pensavo col mio cuore di ragazzo, «di andare contro la volontà della mia famiglia? Lui non può capire la mia strada meglio dei miei, che mi vogliono ragioniere!». Invece era proprio così, e ho dovuto ringraziarlo a lungo per questo.

Da quel libro quindi non si è più staccato?
Ancora oggi ne rileggo ogni tanto con reverenza dei passi. Molti li ho impressi a memoria nella lingua originale. Lì c’è tutto, tutto. Nessuno che immagini o voglia fare lo scrittore può prescindere da Omero: lì c’è l’inizio di ogni cosa, la pietra di paragone per qualsiasi attività letteraria.

Nel “Cavallo rosso” si avverte un respiro epico, tradotto al nostro tempo, così come un intreccio di personaggi dentro un afflato di popolo. È anche grazie all’Iliade?
Sì, mai avrei potuto scrivere quel libro senza Omero. Ma neppure avrei potuto scrivere gli altri.

Se dovesse parlare della cultura cattolica oggi, intesa non appena come “libri” ma come principio di conoscenza del mondo e della realtà, quale preoccupazione o analisi avverte come prioritaria?
Il problema principale del mondo culturale contemporaneo è che la cultura, nelle sue direttrici di fondo, la fanno i laici. Il che pone i cattolici in una posizione di rimorchio che non ha ragioni. Perché la cultura laicista, semplicemente, non porta il vero. La cultura cattolica non deve farsi intimorire, ma deve instancabilmente ridire all’uomo il suo segreto di verità: il nostro compito è rendersi conto e testimoniare che anche alla radice della cultura laica c’è il cristianesimo, fosse anche solo per negazione. Nel panorama di oggi c’è un grande spezzettamento nel particolare, mancano figure nel campo intellettuale e culturale.

Come impatto sulla cultura popolare è piuttosto comune un accostamento tra lei e Giovannino Guareschi: grande successo a dispetto del “gotha” accademico e letterario, fede cattolica, esperienza diretta della guerra. Ha avuto modo di incontrarlo?
Sono andato a trovarlo a Milano: mi piaceva molto, lo trovavo interessante, forte. Dovetti aspettarlo per due ore, sotto casa sua. Forse anche per questo all’inizio fu un colloquio molto guardingo. Come se dovessimo sorprendere un errore dell’altro, come fossimo sul “chi va là”. In realtà l’impressione che ne ebbi fu ottima. Nel Guareschi del lager c’era già tutto un grandissimo autore. Poi, secondo me, si è un po’ lasciato andare, privilegiando polemiche politiche e giornalistiche. Ma sono stato onorato di averlo conosciuto e di aver condiviso con lui quei momenti.

E oggi? Segue l’attualità, la politica, le novità letterarie?
Sempre meno. Dedico il tempo alla preghiera e al pensiero.

Per cosa prega?
Ricordo sempre i giovani, a cominciare dai tanti che ho incontrato e consigliato o indirizzato in campo letterario. Prego Dio perché li aiuti a non disperdersi, e perché anzitutto in loro la cultura del cristianesimo mostri la sua presa sul mondo. Perché capiscano che lì c’è la loro gioia, la loro realizzazione, la loro verità.

Pensa mai alla morte?
Sarei un po’ matto se non ci pensassi. Di fronte all’aldilà è ineludibile la necessità di dire pane al pane, di essere intellettualmente onesti. Ho provato a immaginare il Paradiso, sì. L’unica cosa che ho capito è che non è neppure lontanamente possibile figurarselo. È al di là della nostra portata. E se guardo me stesso, l’unica cosa che devo riconoscere è che non ci andrò mai: ho tradito troppo…

Manca il tempo fisico di esprimere stupore, e Corti alza lo sguardo di colpo e dice così: «Poi però penso che tutto il nostro male non è paragonabile all’immensità della misericordia di Cristo. Quando ho la coscienza di questa differenza, penso che in Paradiso ci andranno, ci andremo tutti».

(a cura di Martino Cervo, 10/03/13, L’Ordine)