Eugenio Corti, lo scrittore del Regno: dal particolare all’universale

Elena RondenaIntervento di Elena Rondena (docente di letteratura italiana moderna e contemporanea, Università Cattolica di Milano), Besana in Brianza, 11 maggio 2024 – presentazione della mostra Il cavallo rosso di Eugenio Corti: le prove della storia, il lievito della vita

Buonasera a tutti. Ringrazio  il ‘Centro studi Eugenio Corti’ e il sindaco di Besana per avermi invitato. Sono onorata di essere qui, in mezzo a voi, perché Besana in Brianza è la culla di Eugenio Corti, il quale è una perla per la vostra cittadina, per la terra della Brianza e, senza troppo esagerare, per il mondo intero, basti solo citare quello che la rivista francese «Le Figarò», alla sua morte, il 4 febbraio 2014, scrisse su di lui: «è morto uno degli immensi scrittori del nostro tempo, uno dei più grandi, forse il più grande». Quest’anno ricorrono i dieci anni dalla sua scomparsa e come recitava il titolo dell’articolo che ho scritto per quella ricorrenza sul quotidiano «Avvenire»: Eugenio Corti: Il cavallo rosso non ha più ostacoli.

Infatti i passi per farlo conoscere sono stati numerosi, a partire proprio dalla moglie Vanda di Marsciano che ha raggiunto Eugenio, lo scorso febbraio. È grazie a lei, ai loro nipoti, alla casa editrice Ares che quest’autore inizia veramente a circolare nelle scuole, nelle università e, addirittura, in tanti luoghi pubblici e manifestazioni. Mi riferisco al loro sostegno per il Premio Internazionale Eugenio Corti, nato nel 2018 in collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano; alle pubblicazioni postume, quali Io Ritornerò, Voglio il tuo amore e Ciascuno è incalzato dalla sua Provvidenza. Diari di guerra e di pace 1940-1949, e alla mostra che oggi qui presentiamo, Il cavallo rosso di Eugenio Corti: le prove della storia, il lievito della vita. Credo che, delle tante iniziative svolte su di lui, questa mostra, realizzata per il Meeting di Rimini 2023, sia il punto più alto. L’anno scorso ricorrevano i quarant’anni dalla pubblicazione del Cavallo rosso, uscito infatti nel 1983, pertanto occorreva celebrarlo in modo solenne. Il pensiero corre subito alla signora Vanda di Marsciano che ne è stata la vera fonte ispiratrice, la memoria storica vivente e il sostegno economico. Non posso non ricordare quella telefonata nella quale, con una libertà estrema, mi comunicò la sua decisione di devolvere una grossa somma per la sua realizzazione, desiderava questa mostra e avrebbe voluto venire al Meeting per vederla con i suoi occhi, per incontrare quei ragazzi che avrebbero fatto da guida ai numerosi visitatori e per risentire quell’amore che il popolo del Meeting per l’amicizia fra i popoli ha sempre riservato a Corti e a lei.

Giovedì 9 maggio 2024 nella Basilica di Sant’Ambrogio a Milano, è iniziata la fase testimoniale che porterà don Luigi Giussani verso la beatificazione. È un traguardo certamente molto significativo per chi appartiene a Comunione e Liberazione e per tutta la Chiesa, ma lo cito perché, fra don Giussani ed Eugenio Corti, c’è stato uno scambio epistolare. In mostra fra i numerosi materiali esposti vi era anche una lettera di don Giussani nella quale egli si congratulava con Corti per aver ottenuto il Premio alla Cultura Cattolica di Bassano del Grappa nell’anno 2000. A mio avviso, sintetizza il percorso espositivo della mostra e alcuni aspetti che vorrei mettere in luce, in questa sede.

In lui la fede cattolica trasmessa dalla tradizione ha maturato una umanità che, nella passione per il vero, ha saputo impegnarsi per il destino dei fratelli uomini, le cui vicende descrive con tratti commoventi in tante sue opere, a cominciare da Il cavallo rosso che è uno dei documenti più belli e drammatici del nostro tempo. Corti, proprio per la certezza che Cristo è diventato nella sua vita, non si è mai tirato indietro, anche a costo di risultare sgradito al mondo dell’ideologia, col quale egli non ha mai mancato di paragonarsi con coraggio, svelandone la profonda irragionevole parzialità, sempre fonte di ingiustizia e di intolleranza.

Queste parole di Don Luigi Giussani ci mostrano che Corti è lo scrittore del Regno, vale a dire un uomo che con la penna si è messo al servizio di Dio. È questo quello che ha fatto con la vita e che continua a fare, perché, come sappiamo, la parola scritta lascia un segno indelebile che permane nel tempo e che può davvero contribuire a cambiare e fare la storia. Ma come arriva a essere lo Scrittore del Regno? Il primo elemento da mettere in evidenza e che nella citazione di Giussani è anche il primo dato messo in risalto è che la fede cattolica gli è trasmessa dalla tradizione. Eugenio era il primo di dieci figli, cresciuto da due genitori molto credenti. Il padre Mario Corti era un imprenditore e abile commerciante che trasformò una piccola fabbrica tessile di Besana in una grande ditta che arriva ad avere quasi 1.200 operai, è un papà dalla fede profonda e che viveva il suo lavoro come il suo modo per contribuire all’opera del Creatore. La madre Irma Bestetti era definita da Eugenio come «una creatura fatta d’amore: per Dio, per la santa religione, per il marito, per i figli, per il prossimo». Eugenio quindi respira a pieni polmoni in una famiglia molto cristiana, ma a sua volta questa “Chiesa domestica”, fonda su delle radici molto solide: una terra la Brianza che all’epoca era totalmente radicata nella tradizione cattolica. È utile citare quello che Corti, dice del suo popolo, presente proprio su un pannello della mostra:

Il cavallo rossoNoi Briantei siamo una parte della milanesità, in cosa ci distinguiamo dagli altri milanesi? Abbiamo tutti i meriti e tutti i difetti degli altri milanesi, ma ci distinguiamo dagli altri dal fatto che siamo artisti e paolotti […] Cosa si intende per paolotti? Si intende che sono di religiosità cristiana popolare; la religiosità dei briantei si stacca da quella degli altri milanesi perché c’è più convincimento da noi, c’è più adesione a Santa Madre Chiesa. E poi siamo artisti, […] noi lo siamo, lo abbiamo dimostrato con le opere dei nostri maestri falegnami. Il gusto di chi opera in Brianza è di fare le cose fatte bene, la soddisfazione maggiore che l’uomo ricava dal suo lavoro è il lavoro fatto bene.

Come si evince da queste parole, Eugenio cresce in una comunità che ha come “denominatore comune” la fede in Dio; vede fin da piccolo un modo di affrontare la vita che è sicuramente totalizzante e umano. Sulla scia di una famiglia dai valori così solidi, anche gli ambienti educativi che frequenta sono altrettanti significativi, quali il Collegio s. Carlo di Milano che frequenta dalla quinta elementare fino alla fine della maturità classica. Un istituto molto severo, molto qualificato e anche molto cattolico. È proprio qui, in prima media, che trovandosi fra le mani l’Iliade di Omero rimane affascinato dalla bellezza con la quale quell’autore riesce a descrivere anche duelli e combattimenti. Decide infatti che mai si sarebbe allontanato da quel modo di affrontare la realtà. Già intuiva di essere chiamato a un compito. Leggendo un quaderno di quinta elementare che la signora Vanda mi aveva mostrato, Corti scrive, così:

Ora sono in quinta elementare: studio sempre con gioia, pensando che un dì diventerò un bravo industriale o un bravo ragioniere: chissà che non mi faccia un bel posto nella società e rinomato anche…nella storia.

Quest’ultima espressione fa proprio riflettere perché un ragazzino di dieci anni ha il desiderio di vivere per lasciare un segno nella storia, ma si capisce bene che non lo fa per presunzione ma perché è certo, come lui stesso affermerà in varie interviste, di essere fatto per un compito.

Parto da questi tratti biografici, esattamente come la mostra – nel senso che essa è incentrata sul Cavallo rosso, ma non si può prescindere dagli aspetti biografici, se si parla di quest’opera – per far capire che Corti arriva veramente a paragonare tutti gli insegnamenti ricevuti con quello che il suo cuore desidera. Quando si trova a dover scegliere l’università, e ha certamente delle spiccate doti umanistiche, preferirà inseguire, a suo giudizio, quella facoltà che può aiutarlo a comprendere il vero che tanto lo attrae e che assieme alla bellezza sarà un pilastro imprescindibile. Per i primi di novembre entra nei chiostri bramanteschi dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano nella facoltà di Giurisprudenza. Capirà in breve tempo che in realtà questa facoltà non colmava quella sua sete di verità, ma tuttavia fa degli incontri decisivi per la sua vita futura, penso a Padre Agostino Gemelli, al prof. Mario Apollonio e a Mons. Olgiati. Quest’ultimo è considerato il primo grande dono di quell’ateneo cattolico, infatti, professore di filosofia morale, lo introduce per primo in modo chiaro all’atteggiamento realistico del tomismo. Se nel Cavallo rosso il nome di questo docente non è mai citato, nei Diari, si legge che il 15 febbraio 1941, dopo aver seguito le sue lezioni, nel pomeriggio, va a trovarlo a casa sua, ne esce «entusiasta», «edificato», addirittura afferma: «quello sarebbe il mondo adatto per me, per la mia preparazione culturale. Mi ha donato un suo libretto: Che cosa è l’arte». Sono andata a recuperarlo e, leggendolo, mi è stato ancora più chiaro che quegli insegnamenti sono alla base della concezione che Corti ha dell’arte. Anzi se ci pensiamo bene c’è una scena nel Cavallo rosso che è proprio incentrata su questa concezione.

Nel corso delle due settimane che trascorse a Nomana prima di tornare alle armi, Manno dedicò – come aveva promesso a don Mario – alcune serate ai ragazzi dell’oratorio. Riprese nel punto in cui le aveva interrotte, certe sue lezioni sull’arte. «L’arte, se è autentica, indirizza a Dio» […] «Questo prima di partire io ve l’ho detto un sacco di volte: è la convinzione che sta alla base dei nostri incontri, lo sapete.»

I ragazzi, seduti davanti a lui sulle sedie impagliate dell’oratorio, lo seguivano attenti: sapevano che, a differenza dei suoi cugini Ambrogio e Fortunato, Manno non intendeva fare l’industriale (del resto non ne aveva il tipo: dell’industriale brianteo almeno che, come s’è detto, era quasi sempre d’estrazione popolare: Manno aveva modi diversi, più raffinati e disinvolti); doveva comunque avere ragioni ben importanti, pensavano i ragazzi, per rifiutare quell’opportunità che la vita gli offriva.

«Sentiamo te Carlino» provò a interrogarli il giovane: «Perché io dico e ripeto che l’arte indirizza a Dio? Te lo ricordi o non lo ricordi più, e ti pare che lo dica soltanto perché ci troviamo all’oratorio?»

L’interpellato, levatosi in piedi, si trovò in difficoltà a rispondere: «Perché nell’arte c’è il particolare, cioè no, l’universale. Eh, non mi ricordo più bene.»

Gli altri ragazzi ridacchiarono, ma in modo contenuto: avevano tutti una certa difficoltà a ricordare quei concetti astratti sminuzzati per loro con tanta pazienza da Manno, studente del secondo anno d’architettura.

«L’arte» disse il giovane «è ‘l’universale nel particolare’, è questo che tu volevi dire, che abbiamo detto tante volte.» (Nel ripetere l’antica definizione che ha orientato gli artisti dei secoli in cui l’Italia è stata veramente grande in arte, Manno non provava la minima soggezione verso le estetiche nuove, tutte più o meno in contrasto fra loro, di cui sono oggi pieni i testi e le riviste specializzate.) «Ma cosa significa, a metterla in spiccioli, questa frase? Prova a spiegarla con parole tue.»

«Vuol dire che l’arte è… è una specie di…» si sforzava di ricordare il Carlino Valli, diciassette anni, apprendista giardiniere.

«Beh, vedo che è necessario fare un ripasso generale. Cercate di stare attenti, perché queste cose potranno servire a tutti: sia a quelli di voi che faranno l’operaio, per arricchimento della loro mente, sia soprattutto a quelli che intaglieranno il legno o batteranno il ferro, o faranno il disegnatore industriale, che sono lavori ai quali noi briantei siamo molto portati.
(E. Corti, Il cavallo rosso, Milano, Ares 2023, pp. 76-77)

La scena descritta è semplice: Manno, che è uno dei tre alter ego di Corti, è stato chiamato dal prete dell’oratorio a parlare a dei ragazzini. L’argomento di quella lezione non è affatto semplice: l’arte è l’universale nel particolare, Corti «Non schiva nulla del destino umano e osa professare un’ambizione aristotelica: “Cantare l’universale nel particolare”», una lezione che impara da Mons. Olgiati e dalle circostanze con le quali si imbatte, tali per cui quella fede imparata sulle ginocchia della sua mamma è all’origine della sua decisione di vivere intensamente il suo reale, il suo particolare.

C’è sempre però la mossa personale, quel momento nel quale si decide che si vuole vivere in un certo modo. Già abbiamo anticipato che la lettura del libro di Omero non lo lascia indifferente. Ma il momento nel quale decide di mettersi al servizio dell’Universale è proprio al fronte. Tutti conosciamo la vicenda. Corti, come molti dei suoi personaggi ha vissuto la Ritirata di Russia, ha ventuno anni e parte per il fronte chiedendo espressamente di essere mandato in Russia. Vive, così, la tragica esperienza della distruzione dell’Armir: una sterminata colonna di soldati, sbandata, marcia dal Don a Bierosvlk, nel gelo dell’inverno russo, senza viveri né munizioni, sotto l’incessante fuoco nemico.  Durante la notte di Natale a 47 gradi sotto zero, straziato dalla prospettiva di un imminente congelamento e dalla sensazione di essere alla fine, fa una Promessa alla Madonna: promette che, se si fosse salvato, avrebbe speso il resto dell’esistenza seguendo il secondo versetto del Padre Nostro: Venga il Tuo Regno. Ma in che modo? Proprio attraverso l’arma della penna. In quell’istante si consacra al compito di scrittore. Scrivere per l’avvento del Regno significa sentirsi investito della responsabilità di scrivere per la Verità. Dice il Vangelo di Matteo: «Cercate prima il Regno di Dio». Corti ha tenuto fede a questo compito, infatti tutta la sua vita è stata investita da questa decisione, una decisione dalla quale sono fiorite tutte le sue opere.

Torniamo a Manno e ai ragazzi dell’oratorio. Corti fa esattamente come Manno in quella scena – se c’è qualche ‘cortiano di ferro’ fra voi, forse si chiede perché non prendo a prestito le scene nelle quali c’è Michele Tintori, altro personaggio fondamentale, colui che, come Corti, vuole fare lo scrittore –; uso proprio Manno, proprio perché in questa scena Corti, come in tutto il romanzo, si fa maestro. Se ricordate nella scena Manno, proprio come un maestro, interroga, chiede di ripetere ciò che aveva spiegato negli incontri precedenti; Manno, o meglio, Corti ha a cuore il bisogno dell’uomo, il suo desiderio. Ecco che quindi si capisce il valore della scrittura, per Corti: ogni particolare ha dentro l’universale, che sia un episodio bellico, un personaggio, un oggetto da descrivere, un fiore, un albero, un uccello, un’emozione, un sentimento, una gioia, un dolore, qualsiasi cosa ha dentro il Tutto, con la T maiuscola, richiama ad Altro. Il particolare è segno della Bellezza e della Verità. Corti si fa testimone di questa Bellezza e Verità, si sente responsabile di mostrare il Bello attraverso l’arte della scrittura. Una scrittura che diventa arte. Una scrittura che diventa vocazione. Una scrittura che ha bisogno di una lunga gestazione proprio com’è stata la realizzazione del Cavallo rosso. A tal proposito voglio condividere con voi alcune informazioni che ho ricavato da un’agenda di Eugenio del 1968, ma che lui utilizza durante il 1974, un materiale inedito che i nipoti Mario ed Ermanno mi hanno gentilmente messo a disposizione. Così si legge:

Riprendo subito a lavorare al mio libro, che ha per titolo provvisorio “Monte Brianzo” cominciato subito dopo la stesura dell’ “Isola del Paradiso”, cioè – come ricostruisco dal presente diario – nel febbraio del 1971. Durante la lotta per il referendum, e cioè dal 1 gennaio corrente ‘74 al 13 maggio, non mi è stato possibile dedicargli neppure un’ora. In quel periodo ho pubblicato diversi articoli.

Scrive così con la sua bella, elegante, calligrafia, con una stilografica dal color blu, ma con la matita fa delle aggiunte, con essa sottolinea la data e l’anno (febbraio 1971) e con una freccia indica esattamente il termine: «finito nel dicembre 1981 prima delle feste di natale (poi però continuato a perfezionare, vedi p. 21/4)». Sono andata alla pagina 21 / 4 dell’agenda e così ho trovato scritto:

11 maggio ‘83. Stamattina ho corretto le ultime correzioni delle correzioni del 3º volume, effettuando ancora qualche ritocco. In questo modo ho definitivamente terminato di scrivere il romanzo Il cavallo rosso che avevo cominciato nel febbraio 1971.

Tralascio alcuni altri dati da lui riportati e vado alla fine della sua nota «Oggi ho tirato un bel respiro. Rendo Grazie al Cielo per essere venuto a capo di questo imponente lavoro».

Non è qui la sede per seguire nello specifico la campagna di diffusione dell’opera che Corti documenta splendidamente – pensate che subito il 21 maggio 1983, in visita a Roma, la dona al Papa e, per il Natale dello stesso anno, la prima edizione è già esaurita –, ma ciò che è evidente è che quest’opera, tanto studiata, limata, corretta, contribuisce alla costruzione della città celeste che, come diceva sant’Agostino, tonerà a “splendere sul monte” (chissà che quel monte al quale Corti pensava come primo titolo sia proprio quello); in ogni caso per costruirla occorre combattere per il Regno e lui, come ho cercato di dimostrare, è veramente lo scrittore di Dio, anzi lo scalpellino di Dio: come i bravi briantei scolpiscono il legno, così Corti scolpisce pagine, è il suo particolare nell’universale.