Quando la vita costringe ad imparare le poche certezze che contano

Eugenio CortiE’ uno stile. Romanzo. Inizia con l’azione già in atto, tronca non conclude. Il viaggio è come lo schema. Sembra saldarsi a cerchio, il tracciato. E, però, a ben considerare ci si avvede che il protagonista – l’Autore – si deve preparare ad altri sentieri; “compresi che non avevo scampo”.

Sto parlando dell’ultimo libro – ancor fresco di stampa – di Eugenio Corti, Gli ultimi soldati del re, Milano, ed. Ares, pp. 320, L. 28.000. Un grande libro. Una sorta di prosecuzione di quell’intreccio di epica e di lirica che fu “Il cavallo rosso”. Il quale, a sua volta, ampliava il primo racconto ossessivo – quasi una “Metamorfosi” kafkiana –: “I più non ritornano”. Ma di Kafka c’era solo l’accasciamento. Per il resto – so di rischiare, ma non provo un brivido – viene alla mente Manzoni e soprattutto Bacchelli.

Viaggio lungo il quale si incontrano figure umanissime nella bontà e nella cattiveria e in qualcosa di mezzo e di arruffato, che siamo pressoché tutti noi. Quando si familiarizza con comprimari e perfino con comparse, ci si accorge che le fisionomie sono nette e sfumate: come devono essere, trasfigurate dall’arte. E cangianti con il tempo e le vicende. Viaggio lungo il quale si osservano popolazioni e gruppi umani, tradizioni e atteggiamenti; e paesaggi che, abbozzati in poche pennellate o rifiniti con attenzione ostinata e felice, si sussuegono e preparano ed esprimono le emozioni più intime, audaci e sottili.

Detto in fretta per badare ad altro. Si tratta del racconto della risalita dell’Italia, da parte dell’esercito regolare – il “Corpo italiano di Liberazione” – dopo l’otto settembre 1943 con gli “Alleati”, fino a quasi tutto il 1945. Una vicenda spesso ignorata dalla storiografia “ufficiale” riguardante la “Liberazione”: storiografia che, invece, accentua il ruolo dei “Partigiani” – rossi o bianchi che siano – al punto da dimenticare l’aiuto giunto dall’estero e il ruolo svolto da ciò che – per senso del dovere e della fedeltà alla parola data a una monarchia traballante e a un governo confuso e pasticcione – rimaneva delle forze armate legali della Nazione.

La prospettiva scelta, e vissuta dal Corti, si presta a una valutazione storica negativa, almeno nell’ultima sezione del libro, soprattutto nei confronti dei partigiani comunisti. E qualche riga di giudizio l’autore non è riuscito a tenere nella penna. Meglio lasciar parlare i fatti già più che eloquenti. Ma si è di fronte a una menda comprensibilissima.

Tornando al romanzo e alla sua forma artistica: non è retorica affermare che il tema sul fondale è il destino dell’uomo “impastato di contraddizione”. Per di più, il narratore considera questo destino in una situazione paradossale ed eccessiva quale è la guerra e il timore di una guerra civile: come se un medico auscultasse un malato sul lettino di un ospedale. Ne viene l’irrompere incessante della morte quale interrogativo che rimane sospeso in modo persistente e angosciante. E, prima della morte, il male, il dolore, il peccato, e Dio imprecato e tuttavia accolto a fatica e con gioia: con la speranza indomita di una gioia che verrà e che già da adesso si annuncia, particolarmente con l’amore a una fanciulla: un amore che si ignora se ricambiato.

Mi esprimo quasi a “tesi”. Ma non c’è nulla di meno sistematico di un romanzo come questo.

Discutano pure i critici sulla qualifica di scrittore cattolico, di cattolico scrittore e astrazioni simili.

Corti se la cava in una riga, affermando che il realismo porta sempre ad accordarsi con il cristianesimo: fino a poter chiedere l’impossibile.

Comunque, non ci si attenda una narrazione “devota” in senso spregiativo. Il cuore dell’autore si sente “scarnificare dalla pena” e “opprimere dalla stanchezza e dalla viltà”. Eppure. Descrivendo un suo compagno di armi che, tornato a casa, non trova più nessuno dei suoi cari, Corti incalza: “Perché Dio lo tormentava a quel modo? C’era la risposta, si capisce: allo  stesso modo Dio stava mettendo tremendamente alla prova interi popoli incolpevoli. E questo era pienezza di cristianesimo. Ma ora che alla prova era sottoposto il mio amico, io faticavo molto ad accettarla”.

In un frangente drammatico sembra l’autore quasi bestemmi o almeno comprenda la bestemmia. E’ una ragazza ignorante, la quale aspira ad entrare in clausura, che gli fa intuire il sacrificio e il valore della vittima unita a Cristo. Orizzonti tersi e lontani. Tersi e vicini. Piangendo di letizia. La stessa Chiesa nei suoi ministri si presenta con la consueta ambiguità. Ve ne sono di pavidi, di piagnucolosi, di eroici, di saputelli, finché la vita non costringe a imparare le poche certezze che contano.

La visione del mondo non assume mai l’andatura di una lezione o quasi. Emerge dai fatti “quasi senza volerlo”. Pagine dolenti. Pagine gaie. Pagine aggrovigliate e invocanti ed esprimenti un’ammirazione arresa e attonita. Mai senza fatica. “Concatenamenti” chiama la riflessioni di Corti, un suo amico. Ma nello scorrere fluviale e gorgogliante del racconto non v’è traccia di sistematicità artificiosa: il Romanziere si dice come è e come si sente nell’intimo. Un vigore e una freschezza rari nella letteratura contemporanea. E il susseguirsi degli avvenimenti e degli stati d’animo prende fino alla commozione. Con scrittura che sa essere, a volta a volta, cruda, solenne, flebile, gioiosa, ribelle. Mai astiosa. Mai sarcastica.

Uno si può domandare come mai un romanzo come questo non avrà – ne sono certo: non avrà – lo straccio di una critica non si dice benevola ma almeno passabile sulla stampa che conta: quella patinata e spesso più vuota e scipita e un po’ lurida; quella che ha pronto il peana per ogni libro di stagione, ancora acerbo e già marcio.

Ma tant’è. Si componga la pulizia di pensiero e di vita con la libertà di chi non si sottomette agli stereotipi di una storiografia sempre autosuperantesi nello sforzo di stare con i vincitori di turno. L’(auto)esclusione arriva da sé. Anche perché se si attacca la prima pagina del libro, non si desiste. Non case editrici prestigiose sul mercato. Un grazie all’Ares. Non paginoni di recensioni pagate con altre recensioni in un nugolo di turibolari. Il silenzio. E chi ha il coraggio di leggere e di essere se stesso, faccia conoscere il libro. Siamo al samiszdat o press’a poco. Anche perché “ormai è sempre naia”, ma si esce dalla vicenda narrata con una speranza insospettata.

Dottor Corti, a quando il prossimo libro? E se provasse a raccontare la vita di ogni giorno, dove non c’è guerra dichiarata, ma la morte imperversa e il dolore supplica lenimento?

(Alessandro Maggiolini, 02/07/94, L’Osservatore Romano)