Io ritornerò. Lettere dalla Russia 1942-1943

La copertina di Io ritornerò

La copertina di Io ritornerò

Nel 1941, Eugenio Corti ha vent’anni. E’ iscritto all’università, Facoltà di giurisprudenza, e questa condizione gli darebbe il diritto di posticipare la chiamata alle armi. Ma “non è giusto – scrive – che mentre tutti giovani della mia età, di quasi tutte le nazioni, sono coinvolti in questa grande guerra, io ne rimanga fuori”. Così rinuncia al privilegio e inizia il corso ufficiali. Al termine risulta tra i primi, quelli che hanno il diritto di scegliere la destinazione. Molti ne approfittano per imboscarsi; lui no, chiede di essere mandato in Russia. C’è una ragione precisa. Cresciuto in una famiglia di profonda tradizione cattolica, andato a scuola dai domenicani del collegio San Carlo, all’università ha letto Maritain e Mounier, ha scoperto che affermano che il comunismo sovietico è la realizzazione dell’ideale cristiano, è dubbioso ma incuriosito, e decide che la guerra è l’occasione per andare a constatare di persona. E’ l’esperienza determinante della sua vita. Mentre i combattimenti ristagnano, parla il più possibile con la gente del posto. Scopre che non c’è famiglia che non abbia almeno un membro ucciso dal regime o deportato in Siberia, ascolta i racconti degli anni tremendi della carestia in Ucraina e del suo spaventoso compagno, il cannibalismo. “Quella vicenda mi fece toccare con mano la verità di quel che aveva scritto sant’Agostino millecinquecento anni prima: o si costruisce la città di Dio, o inevitabilmente si costruisce la città del Principe di questo mondo. E decisi che dovevo raccontare quel che avevo visto”. Sarà di parola: sopravvissuto alla terribile ritirata, dedicherà il resto della vita alla scrittura, e “Il cavallo rosso” è tra i capolavori ispirati all’epopea degli alpini in Russia.
Ora Ares manda in libreria il materiale di base, per così dire, di quel racconto: la raccolta completa delle lettere che Corti spedì in Italia dal fronte (a cui il curatore aggiunge in nota, dov’è il caso, le pagine del romanzo in cui riecheggiano). Non c’è letteratura, qui; solo l’animo di un giovane uomo di solide convinzioni, alle prese con una guerra che non ha ancora rivelato il suo volto peggiore. “La guerra fa uomini – scrive da Bologna prima di partire, 9 giugno 1942. La guerra insegna un’infinità di cose perché ci mostra i nostri simili tale quale essi sono: insegna a conoscere veramente gli uomini. Io parto sereno, allegro anche: ciò che viene dalle mani di Dio dà sempre gioia. E ricordatevi: tornerò. Potrò magari essere ferito o esser dato per disperso, ma di una cosa voglio che vi ricordiate assolutamente: che tornerò”. Le lettere raccontano i primi mesi di guerra, quasi una scampagnata: “Sembrerebbe di essere al campo in Italia – annota il 26 giugno, se non fosse per la fila di bambini affamati che compaiono vicino agli accampamenti all’ora del rancio”. C’è spazio anche per qualche squarcio lirico: “Carissime e dolcissime fanciulle – risponde alle sorelle – mi è arrivata ieri la vostra lettera alata. E mi ha portato uno sprazzo di cielo azzurro su una distesa di mare turchino e una fresca aria profumata di salsedine”. “I russi sono, davanti a noi, del tutto tranquilli, e si prevede che lo saranno sempre – scrive ancora il 13 dicembre. Niente preoccupazioni dunque”. Invece, tre giorni dopo, scatta l’attacco nemico. Le truppe italiane sono circondate, vagano per settimane nella steppa gelata, prima che i superstiti riescano finalmente a sfuggire all’accerchiamento. Ma non c’è tempo per scrivere, in questi frangenti terribili; solo, il 21 gennaio, la notizia che ce l’ha fatta: “Sono al sicuro nel giorno del mio compleanno”. Per sapere quel che è accaduto nel frattempo occorre rivolgersi al romanzo.

(Roberto Persico, 14/12/15, Il Foglio)