Eugenio Corti: “La mia vita ha un fine più alto”
Una lettera per dire ai genitori di “non tarpargli le ali”.
“Non tentate, con quelle continue osservazioni, di tarparmi le ali”. E’ una lettera molto dura, ma sincera e profonda, quella che Eugenio Corti indirizzò al padre al ritorno della Russia in una licenza estiva prima di tornare al fronte. Un lungo inedito, risalente al luglio del 1943, che vede la luce solo ora, ritrovato tra le preziose carte (bozze e appunti di romanzi carteggi, tracce di conferenze) che stanno venendo riordinate a casa Corti in vista della definitiva collocazione presso la Biblioteca Ambrosiana.
Dalla Campagna di Russia Corti uscì stremato, dopo 28 giorni di odissea in quella pianura dove restò uccisa la gran parte dei suoi compagni del 30° Artiglieria che era stato destinato sulla linea del Don per rafforzare la Divisione Pasubio.
Scampato alla “sacca” e dopo una settimana all’ospedale di Leopold, Corti trascorse tre settimane di convalescenza all’ospedale “Emma” di Merano: qui avrebbe iniziato la stesura del racconto della sua avventura bellica, il diario de I più non ritornano, che poi sotterrò nel suo giardino di Besana Brianza per paura di possibili ritorsioni (conteneva giudizi molto duri sui militari tedeschi).
Corti tornò trasformato dalla Russia. Più maturo, con la “responsabilità di un uomo di almeno 50 anni”, con una volontà “inflessibile”, più fermo ancora nel suo desiderio di essere scrittore, ma anche ferito per sempre dalle immagini raccapriccianti viste nella ritirata che continuavano a inseguirlo durante gli incubi notturni, come ricorda la moglie Vanda che Corti avrebbe incontrato nel 1947 e poi sposato nel 1951 (matrimonio celebrato da don Gnocchi).
E’ questo il contesto in cui scrisse questa “memoria” al padre Mario (1880-1976). Era il 15 luglio 1943. Pochi giorni dopo Corti avrebbe rifiutato un possibile prolungamento della licenza perché sentiva di dover fare il proprio dovere fino in fondo: “Sono sottotenente e devo fare la mia parte: se c’è da sostenere un’ultima difesa, non è decente che io la lasci sostenere solo ad altri”.
Corti scrisse al padre, ma non ebbe il coraggio di presentargli la lettera, che ritrovò nel 1945, quando ritornò a casa, dopo le lunghe peregrinazioni belliche raccontate ne Gli ultimi soldati del re, combattendo con gli Alleati contro i Tedeschi. Corti non si sentiva compreso dal padre che non poteva conoscere gli orrori per cui il figlio era passato (e che certo lui non aveva raccontato nella sua pur folta corrispondenza dal Fronte orientale). Il padre lo vedeva troppo “rilassato” nel periodo di licenza, lo trattava “come bambino o peggio”; non accettava di vederlo alzarsi tardi la mattina, forse gli contestava un atteggiamento inappropriato per un primogenito (di dieci figli) che avrebbe dovuto portare avanti l’azienda di famiglia.
Ma forse il dissidio aveva radici più profonde. Il padre non condivideva il “sogno” del figlio: essere scrittore, per scrivere secondo verità e bellezza, come aveva appreso dai banchi del Collegio San Carlo di Milano, quella scuola, quel liceo classico che aveva voluto frequentare a tutti i costi contro il parere dei genitori che, invece, l’avrebbero desiderato ragioniere. Corti si consacrò alla vocazione di testimone all’uscita della “Valle della Morte” di Arbusov: promise alla Madonna che avrebbe scritto per il Regno.
Del resto, aveva visto la mano della Provvidenza in ogni evento della sua vita. Lo aveva ricordato agli stessi genitori il 9 giugno 1942, giorno in cui la sua tradotta lasciava la stazione di Bologna verso la Russia. Scrivere era l’unica ragione della sua esistenza. Il resto avrebbe concorso alla causa, magari fornendogli materiale narrativo: “Per ciò che riguarda gli studi universitari, entrare nello stabilimento, vi appare adesso chiaro che io li proseguirò o meno, secondo che mi saranno o no utili per quel mio fine maggiore, vero scopo della mia vita”.
Per questo accettò di laurearsi in giurisprudenza, di lavorare nell’azienda paterna (e poi in proprio) fino al compimento dei cinquant’anni. Da quel momento in poi tutte le sue forze sarebbero state dedicate esclusivamente alla grande saga de Il cavallo rosso.
(Alessandro Rivali, 10/04/2016, Avvenire)
“La mia vita ha un fine più alto”
Carissimo papà, la tua lettera obbligandomi a rispondere mi fa dire cose che avrei preferito tacere ancora per un po’ di tempo. Forse però è meglio così. Cercherò di delinearle soltanto, fidando nella vostra discrezione nel non interrogarmi in merito; perché questi miei pensieri intimi son come certi fiori che se una mano li tocca si sciupano e avvizziscono.
Sempre più con l’andare degli anni si è formata in me la convinzione; e tante volte ne ho avuto la sensazione magari addirittura materiale che la Provvidenza abbia su di me piani ben definiti. Così andavo tracciandomi lentamente una linea di condotta per conseguire un fine che mi appariva sempre più chiaro, come scopo della mia vita. Oggi a questo scopo sono fortemente legato da una promessa che ho fatto alla Madonna la sera dell’uscita della Valle della Morte. Nelle mie memorie non ne ho scritto e ti prego (anzi vi prego perché certamente farai leggere queste righe anche alla mamma) di non interrogarmi in merito. Vi dico, per tranquillizzarvi, che in questo scopo la guerra non c’entra, se non come mezzo per preparare lo spirito.
Sono scampato dalle vicissitudini di quest’inverno per le preghiere della mamma, certo; ma la Provvidenza me le ha fatte attraversare e provare appunto per questo che vi ho detto sopra. Per ciò che riguarda gli studi universitari, l’entrare nello stabilimento ecc. vi appare adesso chiaro che io li proseguirò o meno, secondo che mi saranno o no utili per quel mio fine maggiore, vero scopo della mia vita. Le circostanze future decideranno.
Ma ciò che più vi preoccupa, vedo, è il mio contegno dopo tornato dal fronte. Ho una concezione così grande della vita, miro a fini così alti che il vedermi da voi continuamente ripreso per certe sciocchezze mi ha sempre, e non altro, dolorosamente meravigliato. Possibile che voi crediate veramente che poi acquisterei l’abitudine di parlare non correttamente, quando il mio parlare ha frasi profonde, radicate addirittura nel latino e nel greco? Ma non così io vorrei con voi discutere. Queste miserie preferisco saltarle addirittura.
Ascoltate: tornato dal fronte dopo tanti mesi di (trascurando tutto il resto) responsabilità di uomo di almeno 50 anni (e queste responsabilità a volte mi venivano scaricate addosso da chi avrebbe dovuto portarle e non reggeva più al peso, a volte me le sono prese io anche contro le regole perché un giudizio sereno mi persuadeva che in determinate occasioni avrei agito meglio degli altri, er erano vite umane in gioco!) tornato dal fronte, dico, ho voluto essere più ragazzo di quanto effettivamente non fossi. Primo per sfogarmi della tensione nervosa delle suddette responsabilità così sproporzionate ai miei anni (non si violano infinitamente le leggo della natura). Secondo, anche perché voi non dovreste avere la sensazione, sentendomi effettivamente qual che ero, di qualche cosa di gigantesco da cui per il naturale istinto umano sareste fuggiti (quante volte me fatta l’esperienza con i colleghi e Superiori!).
Avevo nel cuore la gioia che la Provvidenza mi aveva dato, tanto grande, alla misura della mia vita reale. La devozione profonda dei miei uomini che mi consideravano come lo specchio della giustizia, e di tutte le altre virtù civili; la stima altissima dei Superiori; l’ammissione, magari invidiosa, di tutti i colleghi della mia superiorità; le due proposte di medaglia d’argento (a 21 anni); il pensiero di avere, con l’aiuto di Dio salvato migliaia di uomini dalla morte. E queste, così, adesso, possono sembrare parole ma allora erano grandi realtà. Lodavo dovunque il Signore per le grandi grazie che mi aveva fatto, ed ecco che tornato a casa mi vedo giudicare e trattare come un bambino e peggio.
Mi dice il papà nella sua lettera che sono “un buon figliolo in tutti quei principi morali religiosi civili che sono la base per farne un buon Cristiano, un buon cittadino…”
E tutto questo è triste e mi sta bene, se il Cielo me lo manda, per tener giù la mia superbia; quantunque mi sembra che superbo non potrei più un alcun modo essere dopo aver toccato con mano fino a che punti di miseria possano giungere gli uomini. Tutto quello che vi ho detto, ve l’ho detto perché da anni il Comando “Onora il Padre e la Madre” così suona all’orecchio quasi in termine di rimprovero. E per nulla al mondo io vorrei trasgredirlo.
Spero sia ormai chiaro anche a voi che la causa di ogni inconveniente è il diverso concetto della licenza (se volete vacanza) tra voi e me. Questo concetto deriva dall’altro della durezza della vita durante il periodo militare o di guerra, o se volete anche di collegio, ma su questo non insistiamo quantunque mi piacerebbe farvi notare (pur avendo sulla necessità del mettere in collegio le vostre stesse idee) come il collegio faccia sentire la sua dolorosa influenza anche a voi. Perciò vorrei comprendeste di più l’intensità e il peso di ciò che ci riempie e, particolarmente nel mio caso, mi riempie la vita (sarebbe pur comodo non aspirare ad altro che a diventare un buon avvocato!) e facciate vostro il mio parere di riservare il tempo passato a casa unicamente al riposo.
Perché, vedete, la mia volontà (in cui forse il papà non ha nessuna fiducia) è inflessibile. Né badi, specialmente la mamma, a quello che può dire la gente. Io degli altri non mi curo perché, quando volessi, li stringerei saldamente in pugno (non sono idee, la vita mi ha dimostrato che ho ragione) perché “gli altri” non hanno contro di me l’unica difesa possibile: il mio affetto. Così vi prego di non considerarmi superbo, o fuori dalla realtà, o senza cuore; e soprattutto non tentate, con quelle continue osservazioni su tante minime miserie di tarparmi le ali. Perché se moltissimo mi preme di “Onorare il Padre e la Madre” moltissimo e più anzi io penso a quando Gesù nel Vangelo dice ai suoi (ritrovamento nel tempio): “Perché mi cercate? Non sapete che io devo essere in quel che spetta al Padre mio?”
Non vi chiedo che un decimo della fiducia che hanno sempre avuto coloro che mi stavano intorno nei momenti veramente difficili da cui può dipendere la vita o la morte.
Eugenio Corti