La Summa della mia vita: intervista a Eugenio Corti

Eugenio CortiEugenio Corti, cos’è che vi ha determinato a scrivere questa vera e propria “Somme” romanzesca che è Il cavallo rosso?
Intendevo effettivamente scrivere la “Summa” (in senso tomistico: il compendio) della mia vita, e insieme – quel che è più importante – delle vicende del nostro secolo. Che io vedo come il periodo conclusivo di un drammatico processo storico iniziatosi quattro secoli fa. La materia a disposizione era enorme, e straordinariamente carica di significato, inoltre ad alcune grandi vicende io avevo preso parte personalmente. È questo che mi ha attirato, e infine convinto ad affrontare l’impresa.

Ci sono aspetti autobiografici in questo romanzo?
Il romanzo è fortemente autobiografico, al punto che la maggior parte delle vicende in esso narrate io le ho vissute di persona: nel libro le faccio rivivere non da uno solo, ma da diversi personaggi, anche femminili. Delle vicende cui io non ho partecipato, le più importanti (come per esempio l’episodio del cannibalismo nel lager di Krinovaia) le ho raccolte da testimoni diretti mentre erano ancora fresche, cioè non passate attraverso la radio, i giornali, i luoghi comuni, che quasi sempre deformano. Ho poi sottoposto ai testimoni ciò che avevo scritto, per un controllo rigoroso dei particolari. Inutile aggiungere che ogni cosa, cronaca e storia, l’ho anche studiata a fondo sulle pubblicazioni disponibili.

Volete spiegarmi perché gran parte della storiografia ufficiale viene rimessa in discussione nel vostro libro?
La storiografia che oggi tiene il campo in Occidente è pesantemente influenzata da una ideologia, l’illuminismo, così diffuso da non essere neppure più percepito come ideologia: in tal modo la storiografia ufficiale si è trasformata in un autorevole compendio di ‘mezze verità’. Essendo il mio un romanzo storico, è tenuto a rispettare in tutto la storia (anche per non cadere nella famosa condanna del romanzo storico pronunciata in Italia da Manzoni): non può quindi accettare una storia che, per quadrare con determinati presupposti ideologici, è spesso falsata.

Il titolo dell’opera Il cavallo rosso rimanda all’Apocalisse di san Giovanni. Perché avete scelto questo titolo?
Il cavallo rosso nell’Apocalisse è il simbolo della guerra; m’è sembrato perciò un titolo appropriato per un libro che cerca di rendere la maggiore, fino a oggi, di tutte le guerre; in ogni caso la guerra che ha squarciato il nostro secolo e la vita dei miei personaggi.

Per l’edizione francese io avevo proposto all’Editore de L’Age d’Homme Vladimir Dimitrievic l’espressione completa che sta nell’Apocalisse: Cheval rouge feu (non utilizzabile in italiano, dove suonerebbe troppo ricercata), per questo l’Editore ha scelto per la copertina un cavallo di colore rosso incandescente. Poi però abbiamo rinunciato al feu nel titolo, per la ragione molto prosaica che nel linguaggio popolare francese il termine feu rouge si riferisce ai semafori stradali…

Voi pensate che la vostra opera possa essere etichettata come cattolica?
M’è capitato di sentire del mio romanzo la definizione: “libro scritto da un cattolico in cattolico”, e mi ha divertito. Non mi dispiace dunque che l’opera possa venire definita o etichettata ‘cattolica’, anche se un critico mio vecchio amico, ora scomparso, sollevava al riguardo obiezioni: ne faceva un problema di semantica (lo stesso fa oggi il mio amico, pure importante critico, Cesare Cavalleri). A me comunque le etichette non fanno impressione, e l’aggettivo piace: tanto mi basta.

Le vicende del vostro romanzo si svolgono dal pontificato di Pio XII a quello di Paolo VI. Come vedete voi la situazione della Chiesa oggi?
Vedo particolarmente in crisi la cultura cattolica, come lo è stata di raro nel corso di due millenni. È sopratutto da questo fatto che provengono i guai attuali al mondo cattolico.

Quanto alla liturgia non mi sento di respingere i cambiamenti introdotti nella celebrazione della messa: l’aspetto di banchetto, di agape fraterna, è infatti ben presente anche nel Vangelo. Nella celebrazione attuale tuttavia una cosa è andata senza dubbio perduta: il senso del mistero. Prima il popolo partecipava alla messa stando alle spalle del sacerdote, che lo rappresentava davanti a Dio, era il tramite tra Dio e il popolo (molti pensavano che appunto per esserne degno egli fosse tenuto alla castità: un grande sacrificio durante tutta la sua vita). Il celebrante inoltre si rivolgeva a Dio in latino, lingua di cui si sentiva l’importanza, anche se ben pochi la capivano. Ciò introduceva nei partecipanti un senso di mistero, consono con la misteriosa transustanziazione del pane e del vino, e anche col fatto che ci si rivolgeva a Qualcuno che ci ha creati dal nulla, e ci ha posti in una galassia di cento miliardi di soli, facente parte di un universo di cento miliardi di galassie.

Quel Qualcuno la gente poteva anche non accettarlo, nessuno era però portato a prendere con lui delle sciocche libertà, col rischio di trasformare il rito in una mezza buffonata (so che è accaduto anche in Notre Dame di Parigi). Oltre a ciò il sacerdote non correva il rischio di sentirsi inutile: al contrario, si sentiva altamente motivato.

Ne Il cavallo rosso sono chiaramente denunciati due totalitarismi…
Nella sua meccanica di realizzazione il comunismo costituisce il rovesciamento del cristianesimo (che è amore) in quanto per costruire la sua società del paradiso in terra non può che procedere per successivi cicli d’odio (Lenin: “L’odio, il nobile odio proletario, il principio d’ogni saggezza”). Questo in Russia ha prodotto decine di milioni di vittime, in Cina e altrove molte di più. Il nazismo, anziché del cristianesimo, era invece piuttosto il rovesciamento dell’ebraismo, e per ciò stesso era senza confronto meno universale, meno propagabile tra la gente del comunismo. Sebbene fosse più efficiente, e anche (per la sua maggior superbia) più luciferino, il nazismo è stato in conclusione molto meno pericoloso per l’umanità.

Non vi sembra che oggi noi abbiamo a che fare con un totalitarismo ugualmente perverso: il liberalismo senza freni?
Il liberalismo senza freni deriva dallo stesso processo storico che ha portato al comunismo e al nazismo. Deriva cioè dalla rinascita del paganesimo (l’unica cosa che è veramente rinata nel corso del Rinascimento): un paganesimo però sostanzialmente diverso da quello antico greco e romano, in quanto dopo avere incontrato Cristo, lo respingeva. Attraverso grandi passi (episodi storici e filosofie, che non elenco) tale processo – scambiato per progresso – è arrivato nel nostro secolo alla proclamazione della ‘morte di Dio’. Ovviamente non ha prodotto la morte di Dio, ha prodotto invece la morte di un numero sterminato d’esseri umani nelle stragi comuniste e naziste; a esse oggi si stanno aggiungendo le stragi derivanti dalla ‘permissività’ sfrenata con la droga e l’aborto, queste ultime pure su scala di milioni.

Il vostro libro, dopo essersi affermato in Italia, conosce ora molte traduzioni o progetti di traduzioni. Eppure per molto tempo voi siete stato ignorato. Potreste spiegarci i motivi di tale silenzio a vostro riguardo?
È andata precisamente come voi dite: il libro è stato emarginato, messo sotto silenzio, perché non era “politicamente corretto”. E il silenzio da parte dei Soloni che fanno il bello e il brutto tempo nella repubblica delle lettere italiana, è continuato anche dopo che si è formato ed è cresciuto intorno a esso il consenso del pubblico e degli studiosi liberi da condizionamenti. Vi parrà strano, ma io ho finito col convincermi che quei signori non possono ammettere che sia stato scritto un libro come il mio. Molto semplicemente: per loro e per la loro semi-cultura l’arte cristiana (non quella da quattro soldi, che sta sotto il loro controllo, quella autentica, che da noi ha prodotto anche in letteratura le grandi opere che sappiamo) è morta da un pezzo, quindi un libro come il mio non può esistere.

Come succede che uno scrittore associ in più di mille pagine e nella stessa opera generi diversi come il ritratto, la narrazione, la descrizione, ecc.? S’è trattato di una vostra scelta deliberata, o essa vi si è imposta nel corso del lavoro?
Si è trattato di una scelta deliberata che poi, mentre lavoravo, ho trovato opportuna. Se compito dello scrittore è dar ragione della realtà del suo tempo, e in particolare rendere la condizione umana, egli non può rinunciare ad alcuno degli strumenti che sono a sua disposizione, siano essi in voga o no. Volta a volta egli deve essere narrativo, descrittivo, in qualche caso pittorico e anche fotografico o cinematografico, lirico, drammatico, tragico, elegiaco, comico, ironico, autoironico, satirico, sarcastico, epico (della grande epica e anche di quella piccola, che secondo Musil è nei racconti delle balie).

Qual è il vostro giudizio di scrittore e di lettore sulla letteratura italiana, e più in generale sulla letteratura dell’Occidente?
In tutto l’Occidente la letteratura ha risentito di quel terribile processo sboccato nella ‘morte di Dio’ (in realtà dell’uomo, d’innumerevoli uomini), di cui s’è parlato prima. In letteratura lo sbocco è stato nel nichilismo, cioè nel niente: escono opere sempre più vicine al niente. Sotto questo aspetto la situazione è esemplare in Italia: oggi da noi gli scrittori sanno scrivere meglio che nella prima metà del secolo o nel secolo scorso. Però non hanno niente da dire: per questo motivo da decenni nella nostra repubblica delle lettere i libri nascono morti o morenti. Gli studiosi più rivoluzionari hanno perciò avuta la faccia tosta di teorizzare per anni, bambinescamente, che l’italiano è una lingua ormai inutilizzabile… I Soloni cui ho accennato prima (che hanno gravi responsabilità in questa situazione) a volte se ne lamentano. Così Carlo Bo sul Corriere della sera: “Perché scrivono?” si chiede, e constata la desolante “mancanza di veri libri”. Egli coinvolge anche gli scrittori francesi, di cui è conoscitore: “Lo stesso fenomeno di ricchezza-povertà la riscontriamo in Francia, dove ci sono scrittori come Sollers che possono fare di tutto, eccetto ciò che conta e ha un futuro”. Ecco qual è oggi la situazione della letteratura ‘che conta’, che tiene il campo.

Per finire una domanda più personale: voi vi riconoscete dei modelli (letterari o d’altro genere)? E in quale misura essi hanno influito su di voi?
I miei maggiori maestri sono stati Omero e ancora Omero, poi il massimo degli allievi di Omero che è Tolstoi. Nell’uso della lingua Manzoni, il quale ha rifatta la nostra lingua per sé e per tutti quelli venuti dopo di lui. Devo molto anche al san Francesco del Cantico delle creature, e a Jacopone da Todi; tra i pittori a Masaccio. Ma sopratutto mi è stato ed è maestro il popolo: la lingua viva del popolo, col quale ho a che fare quotidianamente.

(Philippe Maxence, luglio 1997, La Nef)