Alle porte dell’inferno (ancora sulle lettere di Eugenio Corti)

La copertina di Io ritorneròEugenio Corti scelse la campagna di Russia di sua volontà per conoscere da vicino il tentativo di un mondo senza Dio del cosiddetto «esperimento comunista». In quella ghiacciata anabasi prese piena consapevolezza della sua vocazione di scrittore. Ne I più non ritornano (1947) scrisse il diario di quella marcia nella neve, fornendo il primo dettagliato resoconto della fine del 35° Corpo d’armata italiano sul Don. Attraverso l’inferno della Russia passano alcuni protagonisti del Cavallo rosso come Ambrogio, Michele e Stefano, lo sfortunato bersagliere del 3° reggimento.

Ora possiamo conoscere nuovi dettagli su quell’avventura allucinante. Vanda, l’inseparabile sposa ha infatti ritrovato le lettere di Eugenio dal fronte. Sono documenti che ricostruiscono quasi giorno per giorno la sua vita al fronte orientale.

Sono documenti molto vari (lettere, cartoline postali, telegrammi, biglietti postali), ma in prevalenza missive ai genitori, che consentono di immergersi in pieno in quei mesi difficili e che lasciano trasparire il desiderio di un figlio di rassicurare i famigliari in ansia per la sua sorte; ma soprattutto permettono di ricostruire, passo dopo passo, quelle sensazioni e quelle immagini di guerra poi confluite nella sua opera maggiore.

Queste lettere sono un documento fondamentale e hanno una vivacità, una presa «cinematografica», che lasciano intuire il talento dello scrittore che verrà. Addirittura, sono quasi un «Ur-Cavallo rosso» e forse Corti se ne sarà servito come fonte primaria per ricostruire la sua vicenda bellica.

Il viaggio di Corti in Russia inizia con la straordinaria testimonianza del 9 giugno 1942: è la lettera che scrive da Bologna «in attesa di partire». In questa «raccomandata» Corti apre il suo cuore ai genitori motivando le ragioni della sua scelta: la partenza per la guerra andava «inquadrata nei piani superiori della Provvidenza». Non si poteva «neghittosamente» tirare indietro.

La lettera che inaugura la corrispondenza dalla Russia apre ulteriori spiragli sulla fede di Corti. Il giovane sottotenente partiva «sereno», sapeva che Dio non l’avrebbe abbandonato nella nuova avventura, e il contenuto di questa missiva si dimostrerà addirittura profetico. Corti era certo di tornare:

Potrò magari essere ferito o esser dato disperso, ma di una cosa voglio che vi ricordiate assolutamente: che tornerò (lettera del 9 giugno 1942).

Corti partì come sottotenente del 30° Raggruppamento di artiglieria (2ª batteria del 61° Gruppo). Il tragitto verso la Russia fu tranquillo e troviamo in nuce quelle che diventeranno le ampie narrazioni del Cavallo rosso. Rimase colpito dalla bellezza dell’alta Croazia e dalla sconfinata pianura ungherese, «un vero inimmaginabile paradiso di caccia». Superata l’Ungheria, la tradotta passò per la Polonia e finalmente, il 13 giugno, giunse in Ucraina, l’«antica terra dei cosacchi».

Scrivendo ai genitori dalla stazione di Bologna, Corti aveva confidato loro di sentirsi «poeta». Certamente dimostrava di esserlo quando arricchiva le sue lettere con preziose immagini. Per esempio, il 16 giugno la grande pianura che si prospettava davanti ai suoi occhi diventava come il mare, oppure il semplice e costante ritmo della pioggia diventava il cuore di una bellissima lettera al padre:

Ti scrivo e mi par di cantare, in questa magnifica mattina di luglio. Umida è ancora la terra di pioggia; bagnati i prati verdissimi che senza confine si stendono all’orizzonte, costellati e profumati di altri fiori gialli, madidi i cespugli del bosco in cui siamo nascosti, questo verde bosco da cui si vedono squarci di cielo meravigliosamente azzurro (lettera del 19 luglio).

Il 18 giugno Corti raggiunse la destinazione assegnata e informò i famigliari con un telegramma: «Giunto felicemente sto bene». Il giorno successivo diede dettagli molto più corposi: si trovava «magnificamente bene», era stato accolto «molto cordialmente» dal colonnello, aveva trascorso la notte in «una casetta, come tutte le altre a un solo piano, circondata di alberi, dove abitava una vecchia nonna con due figlie e vari nipotini: gli uomini sono al fronte, dall’altra parte». Arrivato in linea, Corti chiese ai famigliari «una bella scatola di cioccolatini» e un elenco di materiali, tra cui: «Un Crocifisso (circa 20 cm) da appendere in camera, una rete per catturare gli uccelli, alcune tagliole, cartucce con pallini per lepri e per colombi e simili».

I primi tempi al fronte potevano sembrare una sorta di vacanza. La guerra volgeva a favore dell’Asse. I russi si ritiravano. I pericoli erano quasi inesistenti. Anzi, nella lettere trapelano giornate sempre uguali. Corti provava così a immaginare i famigliari nella tranquillità della casa di Besana: i fratelli alle prese con la carabina, le bambine intente a «trafficare per casa e ad andare a spasso». Il clima era così sereno che anche gli episodi minimi, come una cinciallegra che aveva fatto il nido in una cassetta di cariche da cannone, acquistavano il rilievo del grande evento.

La giornata del sottotenente Corti si muoveva secondo questa liturgia. Alle 7.30 o alle 8 veniva svegliato dall’attendente che portava il caffè nella gavetta e una bacinella d’acqua per la toilette. Alle 11 il pranzo: c’era sempre la pastasciutta e il cibo era così abbondante che avanzava sempre. Dopo il pranzo, c’era spazio per un ampio riposo («Si va a dormire qualche oretta»). Alle 18.30 cena, poi partite di football fra i soldati o musica (c’erano una decina di grammofoni). Alle 21-22 si andava a dormire. I periodi di inattività consentirono a Corti di contemplare quella natura con cui ebbe sempre un rapporto privilegiato. Per esempio, il 23 settembre vide uno spettacolo «impagabile» sotto la luna che raccontò dettagliatamente al fratello Giovanni: si trattava della migrazione notturna dei ragni che si lasciavano trascinare dal vento del nord.

Ho assistito a una scena curiosissima e mai sentita: una migrazione di ragni che a centinaia di migliaia si facevano portare dal vento del nord attaccati in uno o due o tre al massimo (sono molto piccoli) a circa un metro di ragnatela. Tutte le spighe e le erbe della campagna avevano attaccato qualcuno di questi esili fili, ma più bello era vederli di sera, lucenti nel cielo, viaggiare sotto il lume della luna. 

Ancora sulla natura. Corti amava cavalcare. In una delle lettere più suggestive, ricorda una sfrenata galoppata tra i girasoli su un cavallo cui era molto affezionato e che sognava di portare in Italia: nella «vecchia terra dei cosacchi» si era sentito «un po’ cosacco».

I tempi distesi consentivano anche la lettura, Corti recuperò al fronte una copia di Tre uomini in barca di Jerome, chiese, inoltre, che gli fossero inviati Il mercante di sole di Angelo Gatti, la Mirella di Frédéric Mistral nella traduzione di Diego Valeri, le Bucoliche e le Georgiche in latino, Moby Dick, la Poetica di Aristotele e Guerra e Pace, nonché gli arretrati della rivista Humilitas.

Tra gli argomenti più frequenti nella corrispondenza ci sono le armi e la caccia. Con il fratello Piero, per esempio, si rammaricò con forza di essere a corto di cartucce adeguate in quella «stra-abbondanza» di selvaggina. Corti chiedeva spesso ai famigliari l’invio di munizioni e, allo stesso tempo, confidava la speranza di trovare un fucile del nemico.

Nella corrispondenza emerge a più riprese la fede di Corti. Lo si è già notato nella lettera da Bologna, ma un altro esempio interessante si trova nella lettera del 5 luglio in cui racconta la sua preparazione alla Messa: si era confessato in piedi nel bosco davanti al Cappellano vestito da ufficiale. Era una scena che gli ricordava l’immagine dei primi cristiani mentre compivano i loro doveri religiosi nelle catacombe o in aperta campagna.

La fede di Corti non era astratta, o il semplice deposito della forte tradizione brianzola, sapeva anzi materializzarsi in una generosità molto concreta. Per esempio, in lui rimase indelebile l’immagine delle sofferenza dei civili polacchi, «file di bambini e donne che chiedevano il pane», un particolare che inizialmente aveva tenuto nascosto ai famigliari: volle allora devolvere a loro il proprio stipendio militare.

La sua fede rifulse in modo particolare nella tragica notte del Natale del ’42, agli inizi della ritirata, quando si affidò totalmente alle mani della Madonna:

Siccome non mi fidavo più della mia forza di volontà non ho fatto un voto vero e proprio, ma mi sono impegnato con una promessa: se mi fossi salvato, avrei speso tutta la vita in funzione di quel versetto del Padre nostro che recita: “Venga il tuo Regno” (1).

Nella narrazione de I più non ritornano abbiamo la cronaca dettagliata di quanto accadde. Corti pregava con «fervore estremo» mentre attendeva la luce del giorno. Ripensava al calore del focolare famigliare, alle grida di gioia dei fratelli più piccoli per i doni intorno al presepio, alle risate del padre che almeno in quei momenti perdeva la «sua severità di patriarca». Mentre continuava ad avanzare nel gelo, ricorse alla Madonna del Bosco, si sentiva una piccola cosa nella mani della Provvidenza» (2).

A metà luglio il reparto di Corti avanzò lasciando la linea del Donez: partiva sempre prima dell’alba, con tappe giornaliere che variavano dai 20 ai 60 km e con soste molto diseguali. Gli autocarri procedevano a 10-20 km all’ora, distanziati una cinquantina di metri gli uni dagli altri per la gran quantità di polvere che si alzava al loro passaggio. Corti trascorreva sempre le nottate sul camion, mentre gli altri militari optavano qualche volta per la tenda e, più raramente, per le case dei civili russi.

I rischi della guerra erano ancora molto relativi, dato che l’artiglieria era l’ultima ad avanzare, Corti fece però in tempo a incontrare i primi morti ai bordi di una trincea: «Buoni soldati, che hanno compiuto il loro dovere» (lettera del 22 luglio). È un’immagine che ritornerà, attraverso gli occhi di Ambrogio, pressoché identica nel Cavallo rosso.

Avanzate non difficili, fino alla linea del Don, costruzione di difese, esercitazioni, controllo della truppa e dei materiali. Questa, in sintesi, fu la guerra di Corti fino al dicembre del 1942. L’unico intoppo fu una caduta accidentale da un camion, che provocò a Corti uno «strappo al polso», una slogatura dolorosa, ma non certo preoccupante.

Tra le novità che rallegravano la vita dei soldati c’era naturalmente l’arrivo della posta. Qualche volta Corti si lamentò che da casa i famigliari scrivessero poco: «Purtroppo aspetto invano vostra posta che non si sogna mai di arrivare».

Il 1° novembre la linea del fronte arretrò dalle posizioni raggiunte per assestarsi su posizioni più favorevoli. Il tempo venne dedicato a preparare rifugi adatti all’inverno. Fu lo stesso Corti a organizzare la costruzione degli alloggi: costrinse i soldati, nonostante il freddo intenso, a un «lavoro forzato»: scavarono dieci grandi buche ricoprendole poi con «solidi tronchi di quercia, di paglia e di terra».

La situazione di «stallo» dal punto di vista militare è riassunta dai primi passi de I più non ritornano:

Fino a dicembre iniziato, le cose erano andate in modo sopportabile sulle rive del Don, anche dopo che il “placido fiume” si era gelato del tutto. Sparatorie non intense delle armi portatili, qualche condotta di fuoco delle opposte artiglierie, e colpi di mano notturni da una parte e dall’altra. Nella prima metà di dicembre quei colpi di mano erano però gradualmente aumentati d’importanza, tanto da trasformarsi a volte in piccole, accanite battaglie. Finché cominciammo prima a sospettare, poi a renderci conto che i russi stavano preparando un’offensiva vera e propria (3).

In quel periodo, Corti era «pattugliere», ad Abrossimowo sul Don, del 61° Gruppo presso il Comando del 2° battaglione dell’Ottantesimo reggimento fanteria Pasubio. Il suo raggruppamento, Trentesimo d’artiglieria di corpo d’armata, contava su tre gruppi 60°, 62° e, appunto, 61°, in «appoggio» alla divisione Pasubio. Faceva affidamento su alcuni vecchi cannoni da 105/32 e su un più moderno gruppo d’artiglieria d’armata (pezzi da 149/40 e 210/22). La divisione Pasubio, insieme alla Torino e alla Duecentonovantottesima tedesca, componevano il Trentacinquesimo corpo d’armata, uno dei tre corpi d’armata in Russia (Armir).

Una delle lettere più intense (anzi una delle ultime prima dello sfondamento del fronte) fu scritta da Corti per consolare i famigliari della sua forzata assenza in vista del Natale: era da pochi mesi in Russia e non poteva chiedere una licenza ad hoc. Ancora una volta, pensò a tutti i famigliari riuniti nella sala grande per «il festoso pranzo natalizio». Sarebbe stato un Natale di guerra, più sobrio, ma forse più intimo.

Corti scrisse così il 4 dicembre 1942. Era sull’orlo dell’abisso. Una manciata di giorni dopo, il 19, i russi attaccarono. Fu l’inferno. Gli italiani dovettero precipitosamente abbandonare le posizioni con tutti i materiali.

Quello che ne seguì fu un lungo bruco nero di uomini in fuga sulla landa ghiacciata. Ne I più non ritornano abbiamo una sequenza dolorosa di immagini che fotografano giorno per giorno quel calvario bianco: soldati che si addormentavano ai bordi della strada per non alzarsi mai più, carni congelate e in cancrena. Il totale disorientamento. Il terrore di essere rinchiusi nella sacca.

Così Corti compendiò a Paola Scaglione la sua marcia nella bufera:

Quella notte tra il 19 e il 20 dicembre 1942 speravamo di poterci sottrarre in tempo all’accerchiamento, invece, dopo alcune ore di marcia, abbiamo dovuto fermarci: la strada verso sud-est era chiusa dai nemici. Abbiamo proseguito il cammino su un’altra strada, verso sud, ma sapevamo di essere ormai circondati: speravamo continuamente di uscire presto dalla sacca… e ne siamo usciti solo il 16 gennaio del 1943. Molto in sintesi: ci sono stati alcuni giorni e notti di marcia, poi tre giorni di sosta nella valle di Arbusov (da noi ribattezzata “Valle della morte”), poi la famosa, tremenda marcia di cinquantasei ore per arrivare a Cercovo, quindi tre settimane di accerchiamento in Cercovo, sotto il fuoco continuo di forse due Divisioni russe. La sera del 16 gennaio, finalmente, siamo usciti dalla sacca, ridotti in pochi, con i reparti completamente distrutti (4).

Corti fece il suo dovere sino alla fine. Fu uno dei pochi (4mila su 30mila) che riuscirono a scampare dalla sacca di Arbusov. La sua Odissea di sofferenze durò 28 giorni. I suoi seppero che era vivo nella data del suo compleanno, il 21 gennaio. Arrivò un telegramma da Richowo che era stato dettato alle 10 del mattino: «Sto sempre bene sono al sicuro nel giorno del mio compleanno. Vi penso e bacio tanto. Eugenio». Nessuno poteva sapere il dramma per cui era passato.

1 Paola Scaglione, Parole scolpite, Ares, Milano 2002, p. 79.
2 Cfr Eugenio Corti, I più non ritornano, Ares, Milano 2013, p. 116.
3 Eugenio Corti, I più non ritornano, cit., p. 21.
4 Paola Scaglione, Parole scolpite, cit., p. 22.

(Alessandro Rivali, maggio 2016, LineaTempo)